LA GIORNATA DELLA MEMORIA


Era ieri, 27 gennaio. Un brano del mio libro Sopravvissuta ad Auschwitz (edizioni Paoline) sulla testimonianza di Liliana Segre, prigioniera nel campo di sterminio dal febbraio del 1944 al gennaio del '45. Aveva 13 anni. Oggi è un'incredibile, granitica e dolcissima donna di 78 anni. Questo è il punto dove racconta la sua liberazione nel maggio del '45, nel circondario di Ravensbruck: prima c'erano stati il carcere in Italia, Auschwitz-Birkenau, la marcia della morte attraverso la Germania.

Vedemmo i nostri carnefici diventare nervosi in quegli ultimi giorni. Crudeli come prima ma agitati, per la prima volta. Finché sentimmo il comando che avevamo tanto desiderato: “Prepararsi a uscire dal campo”. Non da libere, eravamo pur sempre prigioniere, e ci trascinammo fuori con le ultime forze, fantasmi di quello che eravamo state.



I carnefici caricavano su camionette e motociclette le scrivanie, i dossier, i pacchi di pratiche, le macchine da scrivere. Portavano via tutto. “E di noi, che ne faranno?”, era il solito irrisolto quesito. “Non possiamo più camminare per andare al nord: questo significa che ci ammazzeranno tutte”.
Ma non andò così. I due eserciti vincitori arrivarono molto prima del previsto e le nostre guardie furono obbligate ad aprire quel cancello, a farci uscire e a uscire insieme a noi, ancora con i cani al guinzaglio e noi ancora prigioniere, di nuovo sulle strade tedesche.
Si aprivano le case dei civili, si spalancavano le finestre, la gente usciva e portava via quello che poteva, anche le bestie dalle stalle. Fuggivano da lì perché volevano entrare – seppi dopo – nella zona di controllo americana, mentre quella dove ci trovavamo noi sarebbe passata sotto l’esercito russo, meno ricco, meno efficiente, meno prodigo di cibo e regali. Noi non capivamo il perché di questo esodo di civili.
E si mescolavano fra noi le guardie: accanto alle ragazze-nulla si rivestivano in borghese. Cosa fanno? Fino a un momento prima avevano diritto di vita e di morte su milioni di persone nell’Europa occupata, e di colpo mandavano via i cani e buttavano le divise e le armi nel fossato che correva lungo la strada.
Li guardavamo sbalorditi: “Cosa fanno?”. Si mettono in mutande: le SS vicino a noi si spogliano, si rivestono da civili e tornano a essere dei signori qualsiasi, quelli della banalità del male.
Questa gente che aveva messo in ginocchio gli eserciti di mezza Europa terrorizzando, fino a poco prima, noi donne inermi, si metteva in mutande. Era una visione così strana, incredibile, e proprio noi ragazze schiave ci scoprivamo testimoni di quell’attimo che ribaltava la storia.
Era un momento epocale, in cui accadeva tutto e il contrario di tutto: il mondo si rovesciava. Pensate ai civili tedeschi, che fino al giorno prima si erano sentiti padroni del mondo, ai contadini che pur non seguendo il credo nazista, pur non essendo mai stati dei “volenterosi carnefici di Hitler” – secondo la definizione dello studioso Daniel Goldhagen – e avendo continuato ad arare il loro pezzo di terra, si sentivano importanti, parte della “razza superiore”, sotto l’egida del millenario Reich tedesco. E di colpo quel Reich millenario viene sconfitto, e il loro mondo crolla rovinosamente.

Ci fu un momento importante nella mia vita, un episodio privato incastonato nell’evento epocale che stavo vivendo. Il comandante di quell’ultimo campo, crudele assassino, camminava vicino a me – non ho mai saputo il suo nome, era un uomo alto ed elegante –, si spogliò, rimase in mutande, si rivestì da civile. Tornava a casa dai suoi bambini e da sua moglie. Certamente non si accorgeva della mia presenza perché io ero ancora uno stück, un pezzo.
Quando buttò la pistola ai miei piedi, con tutto l’odio che avevo dentro di me e la violenza subita che mi invadeva il corpo, io pensai per un istante: “Adesso mi chino, prendo la pistola e in questa confusione assoluta lo ammazzo”. Mi ero nutrita a lungo solo di malvagità e di vendetta. Pensai che sparargli fosse l’azione giusta nel momento giusto, il giusto finale di quella storia di cui ero stata protagonista e testimone.
Ma fu un attimo. Un attimo importantissimo, definitivo nella mia vita, che mi fece capire che io mai, per nessun motivo al mondo avrei potuto uccidere. Che nella debolezza estrema che mi vinceva, la mia etica e l’amore che avevo ricevuto da bambina mi impedivano di diventare uguale a quell’uomo.
Non avrei mai potuto raccogliere la pistola e sparare al comandante di Malchow.
Io avevo sempre scelto la vita. Quando si fa questa scelta non si può togliere la vita a nessuno.
E da quel momento sono stata libera.

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