MATTI DA GALERA



Una giornata con i pazzi criminali del manicomio-carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia. Tra sigarette, caffè, karaoke e disperazione

Mi viene incontro a larghi passi con la sua figura ossuta e allampanata, gli occhi trasparenti e un sorriso di bambino assurdamente stampato sulla bocca sdentata. “Ciao, mi intervisti? Mi chiamo A., ho 44 anni, sono di Palermo. Lotto contro la mafia. Mi piacciono i bambini. Tra sei mesi esco e vado da mia mamma che ha 78 anni. Credo in Dio e in tutti i santi. Odio le guerre e amo la vita perché è come una musica, la devi sentire nel cuore e nell’anima. Saluto il presidente della Repubblica Napolitano perché ha fatto tante cose giuste…”. Ride: “… e perché è comunista”.





Non fa paura, A. Quasi mi imprigiona in un angolo del cortile per recitarmi il suo monologo, ma il suo sguardo non ha cattiveria. Era solo uno che scippava per bucarsi, la galera lo ha fatto ammattire ed eccolo qua, all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, quaranta chilometri da Messina, un paesone anonimo della Sicilia tirrenica rinomato per le sue cosche più che per le sue spiagge.
Sta poco lontano da piazza Duomo il “Madia”, carcere per 210 pazzi, un edificio elegante in stile liberty giallo e pesca. Ci finisci se commetti un reato qualsiasi, dall’omicidio alla pipì per strada e, oltre che infermo di mente, ti riconoscono “socialmente pericoloso”. Oppure se sei come A. e nel carcere comune sei diventato depresso, psicotico, schizofrenico. O se sei in attesa di giudizio e devi essere “osservato” per stabilire in che stato versi il tuo cervello.

Come gli altri cinque Ospedali psichiatrici giudiziari presenti in Italia, anche quello di Barcellona è il fantasma di un mondo che non dovrebbe più esistere. Scatole per uomini malati, autentici manicomi dimenticati dalla legge Basaglia che in tutto totalizzano 1.200 reclusi. Ospedali-galera che dipendono dal ministero della Giustizia, con la conseguenza che girano più guardie in divisa che psichiatri, i fondi sono drammaticamente scarsi e quindi anche i farmaci, gli infermieri, i percorsi di riabilitazione.
Al “Madia” Anna Laura Russo si muove con naturalezza. Bacia e abbraccia i suoi matti, non chiede mai i loro reati perché “sono una mamma, se scoprissi che sono dentro per pedofilia non riuscirei ad avvicinarli”.
Mi fa offrire un caffè al chiosco-bar che i detenuti gestiscono nel cortile verde e mi dice di nascondere le sigarette “se no te le finiscono in cinque minuti”. È lei, volontaria dell’Arci, a guidarmi in questo pomeriggio ancora afoso per i corridoi che odorano di medicina, dove si dorme in sei per stanza e si mangia in refettori che paiono di una scuola.
Mi mostra il circolo Arci che hanno aperto nel secondo reparto, con giochi in scatola, bandiere della pace e lettori dvd. Mi racconta che ieri li ha portati al mare, i suoi matti col permesso d’uscita, e “sembravano bambini in gita scolastica”. Ma più che farli svagare, Anna Laura vorrebbe impegnarli in un lavoro: sta per avviare qui una cooperativa di pulizie: “Li farebbe sentire utili, con ritmi e orari da persone qualunque” spiega “e risolverebbe il problema dell’igiene qua dentro”. Ha già creato per loro un centro d’ascolto: una stanza dove lei e altre giovani volontarie si mettono a disposizione per confidenze, sfoghi, semplici chiacchiere.
Mi presenta L., 39 anni, l’unico laureato: ha ucciso la madre e l’ha tagliata a pezzi per conservarsela in frigo e non separarsene. Oggi disegna donne giunoniche che lo proteggano dal mondo ed è divorato dal senso di colpa. Parla poco, legge Verlaine e Baudelaire.
Durante le due ore di “socialità”, quando i detenuti-pazienti si riversano in cortile in una confusione giocosa e patetica insieme, fra sguardi lucidi di psicofarmaci e figure deformate dall’isolamento, L. sta immobile su una panchina. Gli altri si mettono in fila per cantare al karaoke, un microfono e uno schermo con i testi che scorrono. G. si lancia in Storie di tutti i giorni di Riccardo Fogli ed è bravo. Dà il meglio su un verso beffardo, ritagliato su questo posto: “… senza nessuno, come una notte che non finisce mai”. “Cantavo, facevo serate e matrimoni. Poi ho avuto un incidente… Ma tu che fai qui?”. Vi osservo, vi ascolto. Tento di capire come sia possibile curare deliri di follia in una galera.
A Barcellona sono rimasti solo tre letti di contenzione, un tempo l’unica terapia per “agitati e confusi” da legare mani e piedi per mesi, ma si continua a mescolare in un calderone indistinto la pazzia sedimentata di N., 48 anni, amico di tutti i potenti della terra, che qualche mese ha ricevuto la visita di Carlo e Diana, e schizofrenie acerbe come quella di L., 22 anni, bello ed efebico come un adolescente, che con voce da panico racconta di essere qui perché “mio fratello mi ha denunciato. Avevo solo preso il coltello per tagliare il pane”.

Seduta sotto gli alberi a un tavolo del bar, parlo a lungo con E., capelli lunghissimi e barba, un Gesù Cristo assassino, mite e filosofo. “La sapienza è fatta di fisica, metafisica e matematica” sentenzia “ed è un peccato che oggi la gente pensi solo alla matematica, ai conti, alle cose di economia, va”. Di sé abbozza qualche frase: “La sera devo prendere 40 gocce di valium per non sentire il rumore del chiavistello che chiude la cella. Sai? Io sono morto, rinato e rimorto mille volte. Abbiamo tutti tante vite, come le bambole nelle matrioske: ci vuole fede per pensare che prima o poi finiranno”.
M. ascolta in silenzio. Regala ad Anna Laura una collana bellissima, che ha fatto smontando e piegando una caffettiera. Ricicla tutto ciò che trova: semi, pezzi di ferro, vetri. E ne fa gioielli. Abitava in un paese arroccato dell’Ennese: un giorno è scoppiato un incendio e tutti hanno accusato lui, senza prove. Il capellone vagabondo che non parlava mai, l’alcolizzato che se ne stava per i fatti suoi ma infastidiva gli sguardi. Come tutti gli scemi del villaggio finiti al “Madia” per un bagno nudi in una fontana, uno sputo in faccia a un vigile, un grido nella notte che disturba il torpore di paesini annoiati fra i Nebrodi e le Madonie.
M. è qui da cinque anni, e chissà fino a quando. “Per gli internati non esiste un fine pena come per i detenuti” mi spiega il direttore, Nunziante Rosania, uno psichiatra arrabbiato contro l’anacronismo della struttura di cui è parte, e cerca di farla vivere. Ha creato qui dentro una falegnameria, un allevamento per i cavalli della forestale e presto anche un canile comunale, il primo a Barcellona. Insieme ai volontari dell’Arci ha avviato laboratori teatrali e corsi di pittura, facendo dimenticare la stagione dei mafiosi, quando a Barcellona venivano i Santapaola e i Badalamenti che ottenevano l’infermità mentale per continuare a gestire i loro affari e riunire le famiglie in queste celle aperte, con il benestare del personale corrotto.
“Quando si entra qui” prosegue Rosania “viene determinato un minimo di permanenza, secondo la gravità del reato. Una misura di sicurezza che può essere prorogata di sei mesi in sei mesi, potenzialmente all’infinito. Il problema è che gli internati non restano qui perché continuano a essere pericolosi, ma perché i dipartimenti di salute mentale del territorio non se li vogliono prendere in carico, e le famiglie neppure. Sono storie di abbandono, di marginalità. Tanti reati potevano essere prevenuti con un servizio sociale attento, capace di leggere certe situazioni”.
Un certo Giuseppe Burrello ci è morto, qui, perché alla data della sua uscita nessuno - famiglia, Asl, comunità – lo ha voluto. Ergastoli bianchi, li chiamano. “Queste strutture vanno superate” prosegue il direttore “il ricovero qui dev’essere un’extrema ratio, non un’abitudine perché mancano comunità all’esterno. E pure il concetto di pericolosità sociale va rivisto: questi sono omicidi consumati in famiglia, delitti maturati lentamente, in una proiezione in cui la persona da eliminare è la fonte di tutti i mali. Sono quindi reati che si esauriscono là, con un rischio di recidiva bassissimo”.
Rosania racconta poi di pazienti ridotti a zombie da psicofarmaci obsoleti, “ma ci mancano fondi per acquistare i medicinali di ultima generazione, che riducono allucinazioni e deliri e in più permettono al paziente di recuperare contatto con la realtà e relazioni. Costano molto. Nelle altre regioni è intervenuta la sanità pubblica, in Sicilia no”.
C’è una parete, poco oltre l’ingresso del “Madia”, che i matti hanno riempito di murales. Inquietanti, come quello tracciato da Salvatore: cinque sagome bianche senza volto, le teste che sputano fumo e, sotto, una frase di Cechov: “L’indifferenza è la morte dell’anima”. Perché questi – come mi dice Michele, arrivato qui dal carcere, un elenco di reati da perdere il conto eppure uomo normale, razionale, che gestisce il circolo Arci e lava e accudisce i compagni più sofferenti – “questi sono soli contenitori di carne umana”.

Con questo articolo, ho vinto il premio Sodalitas - Giornalismo per il sociale edizione 2007.

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