BENVENUTI AD ALICE SPRINGS, AUSTRALIA


foto di Massimo Berruti
Un secolo fa era una minuscola stazione telegrafica nel cuore dell'outback, circondata dal deserto rosso e da comunità aborigene. Oggi "The Alice" è la seconda città del Northern Territory e continua ad attirare immigrati da tutto il mondo. Perché qui la recessione non sanno nemmeno cosa sia

Bassi e allungati, i monti McDonnell sembrano preservare Alice Springs dalle incognite del deserto rosso. Nella mitologia aborigena sono sagome di enormi bruchi ancestrali che oscillando creano il paesaggio tutto intorno nell’“era del sogno”, l’anno zero del mondo. Nella storia vera, questa città è avventura e invenzione di gente che arriva da tutta l’Australia e dal mondo in cerca di quelle atmosfere e opportunità che solo i posti di frontiera sanno dare.
Un secolo fa “the Alice” per i whitefella (i bianchi), Mparntwe per gli aborigeni, era soltanto l'unica, piccola e sofferta, stazione telegrafica nel cuore dell’outback, l’entroterra sconfinato. Nel 1921 c’erano 17 edifici, 27 bianchi, 300 aborigeni e un gran via vai di cammellieri afgani e cacciatori d’oro.
Negli anni Sessanta gli abitanti erano già cinquemila, attirati qui dalle terre a buon mercato messe all'asta dal governo e dalle promesse di ricchezza del turismo che in quegli anni nasceva verso Uluru-Ayers Rock, l’incredibile monolito sacro a 450 chilometri da qui.


Nel 1970 apriva Pine Gap, la base satellitare americana dall’utilizzo tuttora misterioso (neanche il premier australiano sa cosa si faccia davvero qui. Si dice che sia una base della Cia; che l’attacco all’Iraq del 2003 sia stato teleguidato da qui, così come le bombe israeliane sul Libano nel 2006) ma dal solido contributo alle casse locali: 55 milioni di dollari l’anno. Insomma, oggi la calda Alice Springs ha 30 mila abitanti e nello Stato del Northern Territory è seconda solo alla capitale Darwin.

In centro (il «reticolato di strade roventi» descritto da Bruce Chatwin nelle Vie dei canti) bivaccano gli aborigeni Arrendte. Li prendi per clochard, poi scopri che molti di loro sono pittori da migliaia di dollari: questo è il centro nazionale dell’arte aborigena, un affare da 400 milioni di dollari l’anno inventato di sana pianta nel 1971 da un certo Geoffrey Bardon, insegnante, che un giorno disse ai giovani della comunità remota di Papunya: "Perché quei disegni geometrici che vi tatuate sul corpo non li mettete anche su tela?". E nacque il movimento artistico di Papunya Tula, che ha il quartier generale nell'omonima galleria d'arte di Alice sulla Todd Street.
Tra le gallerie e i bistrot sulla Todd incroci rifugiati sudanesi, indiani sikh, filippini, vietnamiti, mentre il ristorante Thai Room diffonde melense melodie asiatiche e l’unico teatro manda le note gutturali del didgeridoo. Un’olandese gestisce un’agenzia di viaggi, un’inglese ha aperto il resort Haven, lo svizzero Beat Keller propone alta cucina indiana in Gregory Terrace.
Ferdinando Ozimo è emigrato nel ’74 dalla piana di Gioia Tauro con moglie e figli («Sono stato l’ultimo ad arrivare qui dall’Italia»), e nella sua frequentatissima rosticceria “La casalinga” ammette: «Qui si fa ancora moneta».


Ad Alice Springs dicono che vieni per un giorno e resti per sempre. Ma puoi definirti territorian, del posto, solo se hai visto scorrere il fiume Todd tre volte, il che richiede almeno vent’anni perché il Todd è perennemente in secca. E racconta molto dello spirito del luogo la Henley-on-Todd, la regata di luglio sull’acqua inesistente: si taglia il fondo delle barche e si corre, e se invece c'è acqua la gara si sospende. Metafora buffa di una comunità che affronta l’isolamento con l’autoironia dei bushmen, gli uomini del deserto stepposo.
“The Alice” dista 1.500 chilometri dalle due città più vicine: Darwin a nord, Adelaide a sud. È l’ombelico dell’Australia e, come un fulcro energetico, concentra ed esaspera certi caratteri nazionali: il melting pot esagerato e dato per scontato (un quarto degli australiani è nato all’estero; il 70 per cento degli abitanti di Alice è nato fuori dal Northern Territory), l’integrazione faticosa ma desiderata con gli aborigeni (il 2,3 per cento della popolazione australiana; il 30 di quella di Alice), l’economia che tiene testa alla crisi globale.



La città ha il reddito pro capite fra i più invidiabili del Paese (41.594 dollari annui) e il tasso di disoccupazione più basso (il 2,7 per cento contro il 5,7 nazionale). La sua economia, retta dal settore pubblico, dal commercio, dalle industrie minerarie e dalle costruzioni, ne fa il baricentro dell’immenso entroterra punteggiato da comunità indigene e allevamenti di bestiame. La sua ricchezza è cresciuta del 35 per cento in dieci anni e promette ancora meglio per il futuro grazie ai progetti in cantiere: l’ampliamento dell’aeroporto, la nuova centrale elettrica di Owen Springs, l’ammodernamento di due arterie sconnesse e affascinanti, la Red Centre Way e la Tanami Road.
«Siamo una comunità creativa, eccitata dalle sfide» dice l’economista britannica Joy Taylor, manager di Desert Knowledge, la società che sta informatizzando le aree remote per lanciare una rete commerciale. E il Comune invita chiunque a trasferirsi ad Alice, con lo slogan: «Niente recessione, qui». «Cerchiamo architetti, medici, infermieri, agenti immobiliari, muratori...» elenca il vicesindaco John Rawnsley, ventottenne come la media degli abitanti. «Qui la vita è facile. Si fa sport, ci sono spettacoli e festival (il più famoso è il Desert Festival a metà settembre, ndr). Abbiamo tutte le comodità di un grande centro, senza la scocciatura di dover fare i pendolari».


Già: «Qui guidi per 15 minuti o per 15 ore» sorride il polacco Nick Prus, direttore del Golf Club nel quartiere danaroso oltre il solco del Todd, con ville a tre piani, ampi garage per le Land Cruiser e giardini per il sacro rito del barbecue di sabato. Le serate calde si stemperano al casinò dell’hotel Lasseters (chi se lo ricorda nel film Priscilla, la regina del deserto, sappia che in quindici anni non è cambiato di una virgola) o tra i fiumi di birra Tooheys New nell’affollato Bojangles, disco-pub con ingresso da saloon, l’appuntamento fisso del sabato per i giovani francesi, irlandesi e tedeschi che girano il mondo zaino in spalla e sostano un po’ ad Alice perché tra caffè e ristoranti il lavoro si trova sempre.


«Il nostro isolamento attira chi è pronto a rischiare per affermarsi» è la lettura di Margaret Friedel, scienziata ambientale che ha salutato Melbourne senza rimpianti e qui ha sposato Dick Kimber, storico di fama, uno scrigno di aneddoti sui pionieri. Lui paragona il mix urbano a un elastico: «Vibra se è in tensione».

La tensione persistente tra whitefella e aborigeni
che per Kimber, fra i pochi ammessi alle loro cerimonie, arricchiscono l’acerbo agglomerato di una millenaria armonia con l’ecosistema. Per il viennese Erwin Chlanda, che dirige il giornale più diffuso, Alice Springs News, la politica riparatrice dei sussidi statali a un popolo massacrato ha invece prodotto file di fannulloni: «Qui la spesa sociale supera di quattro volte e mezzo il resto del Paese. Fra gli aborigeni c’è alcolismo e violenza: rischiano di frenare lo sviluppo locale». Ma quando ci invita sulla sua veranda per un drink nel tramonto rosso del bush, anche il duro Erwin preferisce virare sul cielo magico sopra Alice. E sul silenzio rifocillante che nessun’altra città può darti.

RITRATTO IN CIFRE
327 chilometri quadrati l’area municipale.
30% la percentuale di aborigeni, contro il 2,3% della media nazionale.
2,7% il tasso di disoccupazione (quello australiano è il 5,7%).
28% l’aumento dei proprietari di case in 10 anni.
26 le scuole pubbliche e private in città.
400 milioni di dollari il mercato dell’arte aborigena, di cui Alice Springs è l’epicentro.
87% l’aumento della popolazione nello Stato del Northern Territory previsto per il 2050.


IL PERSONAGGIO
Filetto di canguro, pomodori del bush, miele di formica: per Athol Wark (nella foto) i sapori dell’outback sono prodigi. Chef di fama internazionale (ha cucinato per George W. Bush e per l’imperatore del Giappone), è nato in Zimbabwe 44 anni fa, ha studiato in Inghilterra e si è perfezionato nelle cucine dei più lussuosi hotel francesi. Nel 2001 si è stabilito ad Alice Springs, di cui oggi è ambasciatore onorario.
«Sono capitato qui per una convention: volevano piatti del bush e io non ne sapevo nulla». Allora ha chiesto aiuto a Rayleen Brown, una dolcissima cuoca aborigena che conosce ogni segreto del wild food e le leggende ancestrali dietro ogni ricetta.
È la sua maestra ancore oggi che Athol vola spesso alle Fiji, dove dirige la cucina di un resort, e sta per rappresentare la cucina australiana all’Expo 2010 di Shanghai.
http://www.warkabout.com.au/



SPAZIO D’AUTORE
L’arte aborigena l’ha inventata lui: Geoffrey Bardon, insegnante (bianco) che nel 1971 spinge i giovani della comunità remota di Papunya a mettere su tela i “sogni”, cioè i miti della creazione, fino ad allora raffigurati solo sul corpo con linee e puntini.
Ne è nato un movimento artistico fiorente, che fa base alla galleria Papunya Tula di Alice Springs: l’unico atelier, dei numerosi presenti in città, che reinveste i guadagni in progetti di sviluppo per gli aborigeni.
«Rappresentiamo 150 artisti» spiega la manager Sarita Quinlivan «con quadri da 300 fino a 80mila dollari». Qui si incontrano tanti artisti che dipingono nello studio sul retro, come Doreen Reid Nakamarra, che ha esposto le sue opere anche a New York e a Mosca oltre che nelle principali città australiane.
http://www.papunyatula.com.au/


Io donna, 21 novembre 2009
e anche qui con fotogallery:
http://www.corriere.it/esteri/09_novembre_19/zuccala-io-donna-alice-springs_0f99e80e-d514-11de-a0b4-00144f02aabc.shtml

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