IN UGANDA, A SCUOLA DI MATERNITA'



Mary, madre di 6 figli, ha portato gli ultimi a farsi vaccinare
al centro medico di Save the Children.

Foto di Francesco Alesi

Un terzo delle morti infantili nel mondo deriva dalla malnutrizione, di cui soffrono 200 milioni di bambini sotto i 5 anni: 7 milioni di loro si spengono ogni anno per malattie banali e curabili come morbillo, diarrea, polmonite, complicazioni neonatali. Per fermare quest’emorragia e avvicinarsi a uno degli obiettivi di sviluppo del Millennio sanciti dall’Onu (ridurre di due terzi la mortalità infantile e di tre quarti quella materna entro il 2015), Save the Children lancia la campagna “Every One”, che con il report “With-Out” spiegherà il paradosso del rapporto tra la fame e gli sprechi di cibo. Info al sito savethechildren.it

Rebecca parla con voce ferma e rassicurante, le mani affusolate e mobili, i suoi occhi buoni fissi in quelli spenti di Laudia, che le siede di fronte e ancora non realizza la tragedia: aver dato alla luce un bimbo morto. Il suo primo figlio. Perso per sempre dentroun senso di colpa e fallimentoche la tiene sveglia una notte dopo l’altra. 

Laudia aveva già le doglie, quando s’è decisa a recarsi in ospedale. Lontano, a sei chilometri dalla sua capanna tra gli alberi umidi. Costava troppo prendere il taxi, che qui si chiama bota-bota ed è una moto che riesce a caricare anche tre persone per volta, così la giovane s’è incamminata. E ha partorito sola, lungo il sentiero fangoso che non finiva mai, per poi tornare alla capanna e seppellire il corpicino nel terreno intorno. Rebecca le stava accanto, a condividere il suo silenzio attonito desiderando di caricarsi addosso tutti i suoi perché. Rebecca parla con voce ferma e rassicurante, le mani affusolate e mobili, i suoi occhi buoni fissi in quelli spenti di Laudia, che le siede di fronte e ancora non realizza la tragedia: aver dato alla luce un bimbo morto. Il suo primo figlio. Perso per sempre dentro un senso di colpa e fallimento che la tiene sveglia una notte dopo l’altra.

Siamo nel Sudovest dell’Uganda, nel distretto di Kasese al confine con la Repubblica Democratica del Congo. Un pezzo d’Africa che non fa notizia: le scorribande di Joseph Kony, l’allucinato generale del Lord’s Resistance Army che ha dilaniato tre generazioni di bambini arruolandoli a forza nei suoi ranghi, hanno tenuto i riflettori puntati più a Nord, nella zona di Gulu. Kasese è solo ordinaria miseria, agricoltura di caffè e tè che non sfama, pesca nei laghi Edoardo e George, sullo sfondo fatato dei monti Rwenzori, i più alti d’Africa. 

Rebecca è nata in uno di questi villaggi fatti di foresta pluviale e colline a perdita d’occhio. Ha imparato a leggere e scrivere in una piccola scuola locale, ha sposato un brav’uomo e ha avuto tre figli maschi sani. Una donna fortunata, dopo tutto. Una figura a metà tra le persone comuni e gli infermieri, che conosce bene i bisogni e i pudori della gente e svolge il compito più importante: condurre per mano le donne verso una gravidanza sicura, convincerle a sottoporsi a visite periodiche, anche se il centro sanitario più vicino sta a Ihandiro, paesone in cima a una collina, distante dai villaggi e accessibile solo da strade tortuose. E insegnare che i neonati vanno vaccinati contro le malattie più banali, che qui riescono ancora a uccidere. 

Gli indicatori sanitari dell’Uganda sono tra i peggiori dell’Africa subsahariana, aggravati dall’Hiv che non accenna a diminuire la sua incidenza del 7 per cento. Il tasso di mortalità infantile è altissimo: 90 bambini ogni mille si spengono prima dei 5 anni per morbillo, diarrea, malaria, polmonite, asfissia, malnutrizione. Ogni anno ottomila donne muoiono durante la gravidanza o subito dopo il parto per infezioni che altrove sarebbero curabilissime. Ma qui, anche un tragitto arduo verso il centro sanitario può invertire i destini. E Kasese è uno dei distretti dove si registrano i dati più drammatici. 


L’organizzazione internazionale Save the Children porta avanti in Uganda il programma Saving Newborn Lives, grazie al qualela salute neonatale è ormai entrata nelle strategie sanitarie statali. Un modello replicato da Save the Children negli altri 119 Paesi in cui opera, protagonista fino all’11 novembre della campagna Every One per prevenire le morti di quasi sette milioni di bambini nel mondo ogni anno.

I mediatori come Rebecca, che macina decine di chilometri al giorno per educare le donne dei villaggi con pazienza e benevolenza, sono i pilastri del sistema.
Rebecca racconta di Laudia, che dopo la morte del suo bimbo avrebbe voluto concepirne subito un altro: qui, dove la religione è una mistura tribale di cristianesimo e animismo, la poligamia diffusa impone alle donne di partorire quanti più figli possibile. Perché la moglie più feconda è la preferita dal marito, il suo trofeo di virilità. Così ogni donna, in media, è madre almeno di sei figli. «Ho spiegato a Laudia che deve attendere almeno sei mesi, prima di restare di nuovo incinta» dice Rebecca «per permettere all’utero di recuperare un buono stato di salute. Ho anche parlato al marito, inizialmente restio, dei metodi contraccettivi e della possibilità di procurarseli a Ihandiro». 

E ha ribadito alla coppia l’importanza di recarsi in ospedale prima del travaglio: «Dopo la prima doglia, non aspettate il secondo tramonto» li ha ammoniti con un sorriso. Zebia Bakengama, la responsabile dell’unità sanitaria di Ihandiro fatta di poche stanze, un frigorifero per i medicinali, le cure di base per i bimbi malnutriti, lamenta quanto sia difficile operare con esigue risorse umane ed economiche: «Al centro fanno riferimento sei villaggi. Visitiamo 1.500 bambini al mese e disponiamo solo di sei volontari come Rebecca, quando ce ne vorrebbero almeno 45. Forniamo anche consulenza sulla pianificazione familiare e aiutiamo i pazienti nelle faccende più pratiche e banali, come identificare la figura che dovrà occuparsi del trasporto e dell’assistenza della madre in ospedale, e risparmiare per comprare la benzina per i bota-bota». 
Intanto, Rebecca rimette in spalla la sua borsa nera e riprende la marcia verso la capanna di Biira Mary Balyanangwe, che ancora non ha fatto vaccinare gli ultimi due figli. Scorge Rebecca spuntare dall’erba alta punteggiata di banani, e la riconosce dall’ampia maglia rossa. Dove sta scritto in bianco: «Nessuna donna dovrebbe morire mentre dà la vita».

da Io donna, 20 ottobre 2012

Commenti

Post più popolari