LE SIGNORE DEI DIRITTI UMANI


Malala, Aung San Suu Kyi, Annie Lennox, Lady Diana, Eleanor Roosvelt, Rita Levi Montalcini e molte altre. Donne distanti per generazione, provenienza geografica, formazione, eppure compatte nella missione che ha segnato le loro esistenze: l’attivismo contro le ingiustizie sociali e la promozione dei diritti umani, in particolare quelli delle donne. 
Una mostra le ritrae una accanto all’altra, interpretando i loro volti con una tecnica mista che gioca con tessuti e pellami di recupero. S’intitola Ladies for Human Rights, la personale dell’artista Marcello Reboani curata da Melissa Proietti e promossa dal Robert F. Kennedy for Justice and Human Rights Center, che l’ha allestita nella sua sede europea a Firenze: un ex carcere trasformato in un polo culturale sui diritti umani, dove anche le scuole sono invitate a conoscere queste 18 donne già consegnate alla storia, in un percorso didattico per tutti gli studenti. 
La mostra è aperta fino al 6 aprile in via Ghibellina 12/A a Firenze, a ingresso gratuito. 



MALALA YOUSAFZAI (Mingora, Pakistan, 1997) 
Per i talebani della valle dello Swat, è “il simbolo degli infedeli e dell’oscenità”. Per il resto del mondo, la giovanissima Malala è icona di un necessario, sfrontato coraggio: il suo attivismo per il diritto allo studio delle ragazze le ha provocato un’aggressione quasi mortale da parte degli estremisti nella sua terra, nell’ottobre del 2012. Ma poi sono arrivati il Premio Sakharov per la libertà di pensiero, una candidatura al Nobel per la pace e un commovente discorso davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel giorno del suo sedicesimo compleanno, il 9 luglio 2013. Che da allora è il “Malala day”.



ANNIE LENNOX (Aberdeen, Regno Unito, 1961) 
“Ognuno di noi è alla ricerca di qualcosa” cantava nella sua hit più nota, "Sweet Dreams", quando era la front-woman negli Eurythmics e si faceva notare, oltre che per le notevoli doti vocali, per un irriverente look androgino. Da oltre vent’anni Annie Lennox svolge anche un’attività parallela: l’impegno sociale per la lotta all’Aids, i diritti umani, l’assistenza sanitaria per tutti, la libertà di pensiero in Birmania. Nel 1999 devolve gli incassi del suo tour ad Amnesty International e a Greenpeace, nel 2011 è nominata dalla Regina Elisabetta Ufficiale dell’Ordine dell’Impero britannico e nel 2012 diventa Goodwill Ambassador per l’Unesco.




ELLEN JOHNSON SIRLEAF (Monrovia, Liberia, 1938) 
La storia tormentata del suo Paese l’ha segnata con l’arresto e la detenzione, con l’esilio, con i morsi della guerra civile alla fine degli anni ’90 che la costringono ad andarsene di nuovo. Finché, nel 2005, diventa presidente della Liberia: la prima donna a capo di uno Stato africano. Le sue priorità: ricostruzione economica e diritti delle donne, da sempre al centro della sua agenda politica. Nel 2011, la “signora di ferro” vince il Premio Nobel per la Pace (insieme alla connazionale Leymah Gbowee e alla yemenita Tawakkul Karman) proprio per la sua battaglia a favore dell’emancipazione femminile.





AUNG SAN SUU KYI (Yangon, Birmania, 1945)
“Un dono prezioso per tutta la comunità mondiale”, l’ha definita il comitato per il Premio Nobel, che Aung San Suu Kyi ha ricevuto nel 1991 ma ha potuto ritirare a Oslo solo il 18 giugno del 2012, finalmente libera. Seguace degli insegnamenti di Gandhi, paladina della resistenza non violenta al regime militare che imbavaglia la Birmania dal 1990, ha trascorso 12 anni agli arresti domiciliari e solo nel 2010, quando le pressioni internazionali si facevano ormai insostenibili, il regime birmano l’ha rimessa in libertà. Due anni dopo, viene eletta in Parlamento e, tra qualche settimana, la giunta militare al potere deciderà se Aung San Suu Kyi potrà candidarsi alle elezioni presidenziali del 2015.






NORMA CRUZ (Città del Guatemala, Guatemala, 1966) 
Quindici anni fa, il suo compagno violentò sua figlia. Da allora Norma Cruz ha giurato che avrebbe dedicato la vita a sradicare la violenza contro le donne nel suo Paese, che registra 700 femminicidi l’anno, di cui il 95 per cento resta impunito. La sua Fundación Sobrevivientes (Fondazione delle sopravvissute) accoglie le vittime con sostegno psicologico, protezione sociale e assistenza legale. Nel 2009, il governo americano l’ha nominata International Woman of Courage, eleggendola a simbolo di speranza per le donne di tutto il mondo. Intanto, Norma Cruz è costantemente minacciata e nel 2011 Amnesty International si è mobilitata affinché la Commissione presidenziale per i diritti umani del Guatemala si accorgesse del suo caso.





JOAN BAEZ (New York, Stati Uniti, 1941) 
Il suo no alla guerra in Vietnam si spinse fino all’obiezione fiscale alle spese militari. Intanto aveva conosciuto Martin Luther King, condividendo la sua battaglia per i diritti degli afroamericani, e poi venne l’appoggio ai contadini immigrati in California che reclamavano condizioni di lavoro più umane e la ferma opposizione alla pena di morte. La cantautrice Joan Baez, l’“usignolo di Woodstock”, è da sempre in prima linea per l’affermazione dei diritti civili. Nel 2006 ha ricevuto il Distinguished Leadership Award dalla Legal Community Against Violence e, tra le sue numerose attività a favore delle cause giuste, nel 2008 si è esibita in piazza San Marco a Venezia a sostegno della Ong italiana Emergency.





CADDY ADZUBA FURAHA (Bukavu, Repubblica Democratica del Congo, 1981) 
Donna, giovane e giornalista in una terra che dal ’96 al 2008 è stata teatro di una delle più sanguinose guerre civili dei nostri tempi, con oltre 5 milioni di morti. Un conflitto che ha fatto dello stupro un’arma affilata per prostrare intere comunità. Lei, Caddy Adzuba Furaha, si dedica a promuovere l’informazione sui diritti delle donne e contro le ingiustizie sociali presso Radio Okapi, un’emittente congolese sostenuta dall’Onu, e dal 2004 è presidente dell’associazione Alliance des jeunes femmes pour la promotion des valeurs humaines, che aiuta le vittime di violenze e si batte contro le discriminazioni di genere. Nel 2012 ha ricevuto il riconoscimento di “Donna dell’anno” dal Consiglio regionale della Valle d’Aosta.






GIULIA TAMAYO LEON (Lima, Perù, 1959) 
E’ l’avvocatessa senza paura che, negli anni Novanta, denunciò le sterilizzazioni forzate delle donne indigene da parte del governo di Alberto Fujimori, facendo riaprire un caso giudiziario che sembrava colpevolmente insabbiato. In pericolo di vita, dovette autoesiliarsi in Spagna, dove ha lavorato con Amnesty International, e oggi vive in Uruguay, continuando il suo instancabile lavoro a favore delle donne.
Da Io Donna, 18 marzo 2014

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