CHERNOBYL, 30 ANNI DI SOLITUDINE


A poco più di trent’anni, Galina ha il volto invecchiato dal gelo, un’arcata di denti finti e tre noduli alla tiroide. Dei cinque figli che ha partorito, le sono rimasti solo Natalja e Dimitri: «Uno se n’è andato a sei mesi, due sono nati morti» sussurra. Le hanno detto che qui la radiazione è dappertutto, ma lei non la vede e pensa solo che altrove non avrebbe trovato una casa gratis e un campo da coltivare.
Esce in ciabatte sulla neve fresca per mostrarci il suo villaggio sperduto nel sudest della Bielorussia, provincia di Narovlja. Trenta anime, un’unica via senza alberi puntellata da case lugubri con finestre infrante e porte divelte. Il confine ucraino è poco più a sud; Chernobyl, a una trentina di chilometri, oltre i boschi infestati dai cinghiali e dalla radioattività.
Galina era piccola il 26 aprile del 1986, la data dell’apocalisse nucleare di cui ora ricorre il trentennale. E, in ogni età della sua vita, ha avuto problemi di salute: «Chissà se è colpa di Chernobyl. I medici hanno sempre detto di no».

Era l’1.23 di notte quando il quarto reattore della centrale nucleare nell’allora Ucraina sovietica esplodeva con la potenza radioattiva di 400 bombe atomiche: la nube tossica aleggiò su tutta Europa, lambendo persino la Cina. L’incidente fu attribuito a negligenze del personale e ai difetti del vetusto reattore Rbmk.
Dei 250 milioni di curie sprigionati dalla deflagrazione, il 70% è caduto sul suolo della Bielorussia: qui, lo Iodio 131 ha danneggiato la tiroide di un terzo della popolazione, e il sud del Paese è tuttora avvelenato dal Cesio 137 e dallo Stronzio 90, elementi radioattivi che deteriorano cuore, sangue e ossa e impiegano secoli per estinguersi.


A 30 anni da Chernobyl, 5 milioni di persone continuano a vivere in aree contaminate tra Bielorussia, Ucraina e Russia, e nel sud della Bielorussia le campagne tossiche sono meta d’immigrazione dal Caucaso e dal Donbass ucraino in guerra. Le case vuote abbondano, i raccolti pure. E la radiazione non si vede e non si sente.
Andrej, il marito di Galina, viene dalla Moldavia: «Facevo la fame. Qui ho scelto una casa abbandonata e ho trovato lavoro in una stalla». Racconta del padre, uno dei 600mila “liquidatori” che spensero il rogo del reattore, costruirono il traballante sarcofago protettivo, evacuarono l’area. La quantità di radiazioni assorbite dai loro corpi era un segreto militare; le statistiche sui decessi sono tuttora controverse. «Lo hanno preso di notte per guidare i pullman che svuotavano Pripyat, la città accanto alla centrale. Gli facevano bere vodka dicendo che l’alcol non fa passare la radiazione. Ha perso i capelli e i denti. È morto un anno dopo».

Tranne che per i casi di radiazioni acute, a 30 anni da Chernobyl ancora non conosciamo i suoi effetti sull’organismo umano. Le conclusioni delle due principali conferenze sul tema, tenutesi a Ginevra nel ’95 e a Kiev nel 2001, sono rimaste in parte secretate, e le ricerche indipendenti non trovano spazio nei report ufficiali dell’Organizzazione mondiale della Sanità e dell’Unscear (il Comitato Onu per lo studio degli effetti delle radiazioni ionizzanti). In un documento del 2006, l’Oms stabiliva che solo 626mila persone potevano considerarsi a rischio: i liquidatori, gli evacuati dalle terre attigue alla centrale, i residenti nelle aree circostanti. Tra loro, però, l’incremento dei tumori sarebbe stato solo del 3-4% rispetto alla media, e per l’Oms l’unica malattia attribuibile al disastro nucleare è il cancro alla tiroide: 5mila i casi registrati, in gran parte curabili.

Tutt’altro quadro emerge dai rapporti di Greenpeace, che stima 200mila vite stroncate dalla radioattività solo dal 1991 al 2000, e un aumento dei tumori in Bielorussia pari al 40%. In uno studio diffuso un mese fa, l’associazione ambientalista rileva che i livelli di radiazioni sono addirittura aumentati nei cereali, e che i bambini nati 30 anni dopo Chernobyl bevono ancora latte contaminato. I governi di Bielorussia e Ucraina, intanto, a causa della crisi economica hanno smesso di monitorare le aree a rischio, e gli insediamenti semi-illegali delle “zone d’esclusione”, inquinatissimi, nel 2016 sembrano identici a come li descriveva nel ’97 il premio Nobel Svetlana Aleksievic nel suo scioccante libro-reportage Preghiera per Chernobyl.

Il villaggio di Dubovy Log, nella provincia bielorussa di Dobrush, è tra i più contaminati del Paese. Una sbarra vieta l’accesso a chi non sia munito di un permesso ufficiale, confinando i 200 abitanti nell’assurdità di una riserva radioattiva umana.
«All’inizio pensavamo di andarcene» alza le spalle Nadiesda Bronova, maestra in pensione, «poi abbiamo saputo che chi si era trasferito in città non trovava lavoro, non si ambientava. Allora perché ammalarci di stress e nostalgia? Noi amiamo la nostra terra». Così Dubovy Log resiste, sebbene lo Stato abbia chiuso la scuola elementare, l’ufficio postale, la caserma dei pompieri.
«La radioattività non viene più misurata dal governo che, con una politica di minimizzazione del rischio, sta invece portando a produzione sempre più terreni» riferisce Massimo Bonfatti della Onlus piemontese Mondo in Cammino, che aiuta la gente di Dubovy Log con serre per coltivare ortaggi puliti. «Non solo non s’arresta il paradossale flusso migratorio verso le zone d’esclusione», aggiunge Roberto Rebecchi di Legambiente Solidarietà, che segue progetti di cooperazione in questi luoghi vetrificati nel fatalismo, «ma il governo incoraggia i rientri di chi s’era spostato in aree più salubri. Da un paio d’anni non pubblica dati sanitari, assicurando che quelle aree sono pulite e tagliando i sussidi che spettavano alla popolazione». 


In questi autentici paesaggi post-atomici si respira un’atmosfera da fine del mondo, stemperata solo dagli occhi scuri e decisi di Tamara, che incontriamo in un caffè di Gomel. Nell’aprile dell’86 aveva pochi mesi. Oggi il suo incarnato è pallido e le labbra sottili, sulle parole più dolorose, si torcono in uno scatto a metà tra l’autocensura e il disgusto. «A 9 anni ho avuto il cancro alla tiroide» confida, «lo scoprirono quando ero già piena di metastasi. Sono stata fortunata, al contrario di molti miei coetanei». Per Tamara, decidere di avere figli è stato un azzardo: «So di tanti aborti spontanei, e di bambini malformati. La mia Katerina no, lei è sana, ma l’avrei fatta nascere in un altro luogo, se solo avessi potuto…». Qualsiasi luogo che, conclude la giovane, non sia segnato da un destino collettivo chiamato radiazione.

Da Avvenire, 23 aprile 2016.

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