"LA MIA BAMBINA SPECIALE"


A settembre esce il film "La custode di mia sorella", in questi giorni al Festival del cinema di Locarno. Prima prova drammatica per la solitamente ridanciana Cameron Diaz, è la storia (strappalacrime) di una famiglia che fa nascere in vitro una figlia perfettamente "programmata" perché abbia gli stessi geni della sorella e possa guarirla dalla leucemia. Ho trovato una storia vera molto simile, vicino a Reggio Emilia. E la donna che me l'ha raccontata me l'ha fatta sembrare stranamente normale. Esce domani su "Io donna".

Nel film c’è una figlia “congegnata” in provetta (interpretata da Abigail Breslin) che prolunga l’esistenza della sorella leucemica donandole cellule staminali, sangue, midollo osseo. Quando i genitori le parlano di un trapianto di rene, l’undicenne - che pure ama profondamente la sorella - dice no: va da un avvocato reclamando il libero arbitrio sul proprio corpo e scardinando le dinamiche familiari.
Nella realtà, nel salotto di una villetta in un paese emiliano, c’è Silvia (la chiameremo così) che ha appena 21 mesi e non ricorderà mai il giorno in cui l’hanno portata in sala operatoria per trapiantare un pezzetto del suo midollo, assieme alle cellule staminali del cordone ombelicale, al fratello maggiore gravemente malato.
Marco adesso ha 12 anni...

... è ancora magrolino ma, a un anno dal trapianto, è guarito. Non sa che la sorellina è stata concepita in provetta, faticosamente, affinché fosse compatibile con lui e gli salvasse la vita.
È la madre Chiara, 41 anni, a tentare di farci capire cosa significhi programmare la genetica di un figlio per poterne salvare un altro. «Marco è nato con una malattia rara, l’anemia di Blackfan- Diamond. Non produceva globuli rossi e doveva sottoporsi a trasfusione ogni 20 giorni. Sarebbe vissuto al massimo 40 anni, con la certezza che gli organi si sarebbero deteriorati. L’idea del
trapianto di midollo osseo si è concretizzata quando aveva cinque anni, ma non siamo riusciti a trovare un donatore compatibile. Finché uno specialista ce lo ha detto chiaramente. Con tatto, ma chiaramente: il donatore poteva essere solo un fratello, da far nascere con una fecondazione assistita per selezionare gli embrioni compatibili. Un figlio concepito in modo naturale avrebbe invece potuto essere malato o non compatibile. Mi sembrava così assurdo, qualcosa che stava accadendo nella vita di qualcun altro... È stato mio marito a crederci da subito, coinvolgendomi fino in fondo. Ho capito che era l’unica strada per salvare Marco. Non avevamo scelta, tutto qui. Ogni pensiero, ogni dubbio, è scivolato via».

Era il 2002: la diagnosi pre-impianto non era ancora vietata in Italia. Lo diventa nel 2004, dopo l'approvazione della legge 40 sulla fecondazione assistita. «Troppo presto per noi. Non restava che andare all’estero». A Istanbul e a Bruxelles per sette, estenuanti tentativi: «Producevo embrioni sani e compatibili ma non si impiantavano. Eppure continuavo a sentirmi fortissima: avrei continuato all’infinito».
Chiara e il marito hanno speso decine di migliaia di euro «ma per fortuna non ci siamo indebitati come altre famiglie che ho conosciuto». Finalmente lei resta incinta, nasce Silvia e otto mesi dopo è tutto pronto per il trapianto. Marco (in questo somiglia alla ragazza malata del film, la granitica Kate) ha affrontato il percorso con una compostezza rara anche negli adulti.
«Certo che lo racconteremo a entrambi» assicura la madre. E se Silvia si sentirà messa al mondo solo perché funzionale a uno scopo? «Le dirò che sarebbe nata comunque. Noi volevamo un altro figlio, abbiamo solo fatto in modo di concepirlo sano e in grado di salvare il fratello. Silvia non potrà che essere orgogliosa di sé e dei suoi genitori».
Nessun cedimento, Chiara? Mai un dubbio? Lei sorride: «Non abbiamo fatto nulla di cui vergognarci. Anzi, a volte ci sentiamo speciali».

MA CI SONO ALTRE VIE

«Il film avrà un effetto dirompente sui genitori di bambini leucemici: penseranno che programmare un altro figlio sia la panacea». È preoccupato Momcilo Jankovic, pediatra emato-oncologo all’ospedale San Gerardo di Monza. «La cura numero uno resta la chemioterapia; quando va male si ricorre al trapianto di midollo osseo. Certo, con un fratello donatore le probabilità di riuscita sono maggiori e si abbatte il rischio di tossicità, ma la leucemia presenta una variabile fondamentale: il tempo. Si arriva al trapianto quando il bambino è grave e non c’è tempo per una fecondazione assistita. Prima di prendere decisioni d’impulso,
consiglio alle famiglie di consultare l’Associazione italiana ematologia e oncologia pediatrica (aieop.org), che diagnostica e cura il 95 per cento delle leucemie infantili in Italia».
Quanto ai dubbi etici sulla tipizzazione dell’Hla (si chiama così la tecnica per selezionare gli embrioni compatibili con il figlio da curare), il ginecologo Carlo Flamigni, esperto di fecondazione assistita, ha qualche perplessità sulla “programmazione” di un bimbo a fini terapeutici, ma sottolinea che non è per motivi morali («Non credo che l’embrione sia una persona») bensì psicologici: «Penso alle domande esistenziali che si porrà il fratello minore. Da scienziato, però, trovo sbagliato parlare di eugenetica. Qui non si tratta di “creare” un essere superiore, ma di selezionare embrioni sani per avere un figlio normale, non malato. Non è fantascienza: è una genetica buona».
In Italia, la legge 40 del 2004 vieta la diagnosi pre-impianto dell’embrione, sebbene già quattro sentenze di quattro tribunali diversi (l’ultimo, a giugno, quello di Bologna) l’abbiano autorizzata per coppie portatrici di malattie genetiche.
«Gli effetti di queste pronunce devono ancora chiarirsi» spiega il biologo Francesco Fiorentino, che nel Laboratorio Genoma di Roma non ha mai smesso di eseguire analisi genetiche sugli embrioni per conto di centri di fecondazione esteri. «La procedura è ammessa quasi ovunque ma non in Italia. Noi abbiamo seguito centinaia di coppie che hanno concepito un figlio compatibile con un fratello da curare, soprattutto casi di talassemia e di anemie. Trovo giusto porsi quesiti etici, ma credo che lo scopo
terapeutico possa controbilanciarli».

Commenti

  1. Pierstefano Durantini9 agosto 2009 alle ore 22:18

    Ciao Emanuela,
    sono Pierstefano Durantini, giornalista pubblicista di Roma, ho bisogno del tuo indirizzo e-mail. Ti vorrebbe contattare un mio carissimo amico che ha letto questo tuo pezzo sul magazine del Corsera. Egli è uno degli ispiratori dell'associazione italiana relativa alla sindrome di Blackfan-Diamond ed è rimasto molto colpito dal tuo articolo.
    Grazie
    Pierstefano Durantini
    durantini@tiscali.it

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