LA GUERRA DI JANINE

L’ex modella sudafricana da un decennio dedica tutte le sue energie per sostenere le vittime di violenza sessuale nel suo Paese. Per loro, Janine Rowley ha fondato l’associazione War. «Perché io l’ho vissuto, e uno stupro non si dimentica»

foto di Warren Van Rensburg

"La prima volta avevo sette anni. A violentarmi è stato un cugino di 17. Non l’ho mai detto a nessuno, tanto meno a mia madre, che è morta senza capire perché fossi una bambina tanto silenziosa e triste. Da piccola ero convinta che quanto accaduto fosse una punizione per qualche mia colpa che ignoravo». Janine Rowley oggi ha 55 anni, e solo di recente ha deciso di raccontare pubblicamente i suoi incubi. Da quando ha cominciato a ricevere numerosi premi internazionali come charity lady (il più prestigioso, il Paul Harris Award del Rotary americano) per un decennale, testardo impegno al fianco delle donne vittime di stupro nel suo Paese, il Sudafrica. Che detiene il macabro record mondiale della femminilità dilaniata: ogni 16 secondi si consuma una violenza sessuale, i casi denunciati sono 50 mila l’anno e, stimando anche quelli che restano soffocati nel silenzio, si parla di un milione.



Janine parla perfettamente italiano: per 16 anni, dal 1976, ha lavorato come modella a Milano per Armani e Versace, per poi tornare nella sua Pretoria dopo la fine dell’apartheid. E dedicarsi a chi cercava di curare le sue stesse ferite. La incontriamo a Genova, ospite della Settimana internazionale dei Diritti, dove ha parlato di sé e soprattutto delle donne che ha sostenuto con la sua associazione War (Woman Against Rape).

Janine, parlando della sua esperienza personale lei ha detto “la prima volta”. Ce n’è stata una seconda?
Sì. Avevo 21 anni, facevo la modella a Miami. È successo in un parcheggio sotterraneo: mi hanno assalita in quattro. E anche in quel momento mi sono tenuta tutto dentro, temevo di perdere il mio lavoro.

La sua associazione lavora a stretto contatto con la polizia sudafricana. Cosa fate esattamente?
Forniamo alla polizia e agli ospedali dei comfort parcels, pacchetti con oggetti che possono rassicurare nell’immediato una donna o un bambino violentato: un orsacchiotto, abiti di ricambio, cioccolatini, asciugamano e sapone per lavarsi... Cose che allevino almeno il disagio iniziale di affrontare un interrogatorio. Organizziamo dei gruppi di supporto psicologico affinché gli agenti imparino a trattare le vittime: per loro è emotivamente pesante ascoltare sette, otto casi di stupro ogni giorno. Devono essere in grado di fare le domande giuste, delicate, per permettere alle donne di raccontare con i propri tempi. Capita anche che in polizia ci siano donne che a loro volta hanno subito violenza: in questi casi le individuiamo e le convinciamo a occuparsi delle altre vittime. Abbiamo inoltre alcune case d’accoglienza dove le donne si rifugiano per qualche mese, ma purtroppo molte di loro sono poi costrette e rientrare in famiglia, proprio dove nella maggior parte dei casi si è consumato lo stupro.

Perché in Sudafrica la violenza sessuale è tanto diffusa?
Fino a qualche anno fa lo era soprattutto delle aree rurali del Paese, le più arretrate economicamente e culturalmente. Oggi coinvolge bianchi, neri e ogni strato della società. Penso sia legato a un’idea di sottomissione della donna, ma anche a certe assurde credenze, come quella per cui se hai un rapporto con una vergine puoi guarire dall’Aids. È poi molto diffuso il date rape: portare una donna fuori a cena,
metterle una specie di sonnifero nel bicchiere e approfittare di lei. Ma se il Sudafrica ha un numero tanto alto di violenze, è anche perché finalmente se ne parla, le donne denunciano.

È un trauma che si supera o resta dentro per sempre?
Rimane la domanda: perché proprio a me? Ed è importante confrontarsi con modelli positivi, come posso essere io per altre donne: per questo ho deciso di parlare, di raccontare la mia storia, per loro. Che così comprendono che la vita va avanti. Che la vita non è solo qualcosa che ruota attorno allo stupro subito. Gli incubi continuano, e anche il rapporto con il proprio corpo non è più lo stesso. Ma a poco a poco si può riuscire a non sentirsi più sporche e sbagliate. Anch’io per tanti anni ho pensato che non avevo più voglia di nulla, come donna. Finché mi sono convinta di avere ancora qualcosa da dare.

Una storia, un volto speciale che ha incontrato in questi anni.
Un bambino di due mesi, pochi giorni fa, violentato da un parente... E una ragazza di 26 anni, di colore, violentata più volte, sia in casa sia da sconosciuti. Ero convinta che non ce l’avrebbe mai fatta a superare l’orrore. Invece ha ripreso gli studi, vuole fortemente diventare avvocato, è più sicura di sé. E non ha più la disperazione nello sguardo.


da Io donna, 28 agosto 2010

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