COGITUS INTERRUPTUS




Detesto le interruzioni. Odio lavorare su più fronti contemporaneamente. Sogno una qualità del lavoro idilliaca, che mi permetta di concentrarmi su una cosa per volta e di portarla a termine lentamente, con piacere.
Utopie. Anni fa scrissi questo articolo sullo stress provocato dalle mille (e fisiologiche) interruzioni sul lavoro. Un excursus che mi calza a pennello, questa settimana.
Scrivo tre righe. Passa un’ambulanza assordante. Mi fermo. Soffio il naso. Fuori c’è il solo. Devo ricordarmi di passare in lavanderia. Ecco, ho perso il filo.
Afferro svogliata un vecchio numero del New York Times Magazine che mi dischiude un incontro interessante: una signora che eleva a dignità scientifica il percorso a ostacoli nel quale saltello ogni giorno, e vedo pure saltellare i miei colleghi.
Il personaggio di chiama Mary Czerwinski, è una ricercatrice alla Microsoft, e ha tradotto in termini matematici il caos cognitivo che ci assale tutti sul lavoro: la tirannia dell’interruzione, con i suoi corollari di distrazione e frustrazione.


Dunque: secondo la dottoressa Czerwinski, dal momento in cui mi rimetterò a scrivere, la mia concentrazione durerà solo 11 evanescenti minuti. Dopodiché, con puntualità cronometrica, squillerà il telefono, la mia casella email suonerà per un messaggio in arrivo oppure, meno tecnologicamente, il dirimpettaio di scrivania mi chiederà se valigie si scrive con la i e poi mi trascinerà alla macchinetta del caffè.
Ma il vero problema - sempre secondo la Czerwinski - è che pagherò a peso d’oro (anzi, di tempo, che ormai è ancora è ancora più prezioso) la mia pausa: impiegherò cioè l’eternità di 25 minuti per riprendere il filo del mio articolo. E con un ulteriore rischio in agguato: la mia memoria a breve termine ne resterà talmente disturbata che, quattro volte su dieci, scorderò quel che stavo facendo e per un po’ mi dedicherò ad altro.
La teoria insospettisce anche se presenta un certo fascino: quei 25 minuti mi paiono francamente esagerati. Dimenticare il compito di partenza mi sembra sintomo di alienazione terminale.
E poi, anche osservando per più di mille ore gli impiegati di due grandi società high-tech (come ha fatto l’esperta americana, perché secondo lei rappresentano il paradigma del lavoro contemporaneo, irrequieto e frazionato tra compiti diversi che si rincorrono), come si possono tirare conclusioni tanto schematiche? La frenesia produttiva ci ha davvero omologati tutti persino nei tempi d’attenzione?
Andiamo più a fondo. Se non altro, per dare un senso a questa mia ennesima pausa sul lavoro.
Il primo a illuminarmi è lo psicobiologo Alberto Oliverio, anche lui scettico sui 25 minuti disciolti nel limbo della distrazione: “Mi sembrano troppi” afferma. E chiarisce: “L’attenzione è legata alla motivazione: siamo noi a escludere certi messaggi che non ci interessano per coglierne altri, anche se più deboli”. 
Per esempio?
“Se siamo a una festa e aspettiamo una telefonata, sentiamo lo squillo del cellulare anche in mezzo alle voci e alla musica”. Tradotto: se il lavoro ci coinvolge davvero, la concentrazione vien da sé.
E’ un meccanismo biologico a preservarci da molte - non tutte - interruzioni indesiderate: “Gli stimoli sensoriali passano dalla formazione reticolare, che sta alla base del cervello e lo attiva” spiega ancora Oliverio “ma è la corteccia frontale a decidere se considerare quell’informazione oppure escluderla. E’ la cosiddetta attenzione selettiva, che equivale alla concentrazione ed è più debole nei bambini e negli adolescenti, perché la corteccia frontale è matura solo verso i 18 anni”.
Contro certi fastidi non c’è però motivazione che tenga: il telefono che squilla, l’ambulanza che urla sotto la mia finestra, il collega che ride in corridoio, ci drizzano per forza le antenne. E’ un retaggio evolutivo: uno stato d’allerta per captare nell’ambiente qualsiasi cambiamento, come fosse un potenziale pericolo.
Lo spiega anche Carlo Umiltà, neuropsicologo dell’università di Padova e tra i maggiori studiosi di attenzione (per inciso: non ha mai sentito nominare Mary Czerwinski né la materia di cui è specializzata, la “scienza dell’interruzione”). “Le continue interferenze disturbano l’attenzione selettiva, ma conservano alto il nostro livello di vigilanza” dice il professore. In altre parole ci tengono svegli, ma con la beffa di inibire il lavoro per il quale stamattina ci siamo alzati dal letto.
E non esistono ricette né esercizi mentali per arginare certe interruzioni, per il semplice motivo che l’attenzione selettiva presenta ancora lati oscuri per la scienza: “Ne conosciamo i meccanismi di fondo” precisa Umiltà “e sappiamo che sono coinvolte le aree pre-frontali del cervello. Resta da capire il modo in cui differenziamo le informazioni rilevanti da quelle che non ci interessano”.
Eppure, nonostante l’interruzione disturbi il lavoro, le aziende sembrano prediligere i virtuosi dell’interruzione fatta sistema, il cosiddetto task switching: l’abilità di passare - rapidi, disinvolti e a comando - da un compito all’altro.
Lo conferma Ferdinando Pennarola, che insegna organizzazione del lavoro all’università Bocconi di Milano: “L’impegno simultaneo su più fronti è una competenza molto valorizzata oggi”. Chi la possiede fa carriera; gli altri (quelli che si soffermano, analizzano, approfondiscono) restano ai margini, bofonchiando contro la schizofrenia del lavoro moderno.
Gli studiosi della mente sono invece più prudenti: per loro il task switching è deleterio per la qualità dei risultati, ma utile per allenare la flessibilità cognitiva. Come dire: la danza dei neuroni ci penalizza in efficienza, però alla lunga - se sopravvivremo - ci regalerà pensieri più agili.
Un dubbio è d’obbligo: e la qualità della nostra vita professionale? Il costante cogitus interruptus non ci starà rendendo una massa di nervosi e insoddisfatti?
In fondo sì, sostiene lo psicologo Sebastiano Bagnara del Politecnico di Milano, “attenzionologo” di fama (un classico il suo libro L’attenzione, edito da Marsilio). “Il lavoro fordista annoiava, con le sue azioni ripetitive e i compiti sempre uguali” dice. “Il lavoro moderno invece procura tensione proprio per le sue mansioni frammentate, varie ed esposte all’interferenza. Un’attività non terminata si ricorda più a lungo e intensamente di un’altra portata a buon fine, e il ricordo affiora di notte, disturbando il sonno e inibendo il recupero della fatica”.
Non è finita: “Aggrediti dagli stimoli, ci focalizziamo sul qui e ora, senza riuscire a elaborare un pensiero strategico. Non pensiamo più nel lungo termine, non riflettiamo su ciò che facciamo: smarrendo il senso del futuro, siamo schiavi del quotidiano. Ecco perché ci sentiamo tutti un po’ confusi”.
Vie d’uscita? Ritirarsi in un eremo, spegnere internet, buttare il telefono, imbavagliare capi e colleghi. Oppure accettare il dato di fatto: “Ormai siamo tutti information workers, chiamati a gestire più informazioni e più canali contemporaneamente” constata Pennarola della Bocconi. Il quale suggerisce: “Fissiamo delle regole per eliminare sollecitazioni inutili”.
Ma provate a dire al vostro capo: oggi stacco il telefono per concentrarmi sulla relazione che mi hai commissionato. Al vostro posto troverete presto qualcun altro, meno bravo ma sempre reperibile e felice di interrompersi.
Che poi la produttività benefici di questo lavoro spot, affacciato su finestre multiple e sfaccettato tra mille canali, è tutto da verificare: Pennarola lo sta indagando, fra un po’ di tempo dal suo team di ricercatori arriverà il responso.
Nell’attesa, mi conviene riprendere ciò che stavo facendo. Ho 11 minuti. Solo l’idea mi deconcentra. Altro caffè?

Commenti

  1. Posso dire che dal 'caos cognitivo' scaturito da questi "11 evanescenti minuti" ricaviamo, se non altro, l'attenzione e apprezzamento di un lettore che condivide il tuo stato d'animo e pensiero!
    Sergio Rubichi

    RispondiElimina
  2. Grazie Sergio. Io, comunque, da qualche tempo ho cominciato a staccare il telefono quando scrivo. Ed è stata una rivoluzione copernicana

    RispondiElimina

Posta un commento

Post più popolari