LA CITTA' DEI SOGNI

Non ci crederete, ma e' Milano. Così la vede questo gruppo di giovani uomini, costretti dalle famiglie a emigrare per fare fortuna. Nel 2011, in città sono arrivati 383 minori stranieri non accompagnati (contro i 273 del 2010) e quest’anno, per ora, sono 200. Nessuno di loro ha scelto di emigrare. Ma, una volta qui, sanno che devono farcela a ogni costo.

Kastriot, dal Kosovo, ha appena compiuto 18 anni. Foto di Sirio Magnabosco


“Io non ti ho mai vista, perché dovrei parlarti?”. Kastriot ha bellissimi occhi verdi, un ciuffo scolpito ad arte, lineamenti da bambino. E’ diffidente. Teme domande sui trafficanti che dal Kosovo lo hanno portato in Italia per 3.500 euro.
I suoi genitori avevano deciso che lui, il maggiore di otto figli, avrebbe salvato la famiglia dalla povertà. Così Kastriot viene qui a cercare lavoro e, possibilmente, a fare fortuna. Da solo. A 16 anni. Stipato in un furgone nero con altri adolescenti torvi che attraversano le frontiere meno battute di Serbia, Ungheria e Austria. Scaricato a Trieste, Kastriot incontra un serbo che lo aiuta comprandogli un biglietto ferroviario per Milano.
E ora eccolo qui, jeans a vita bassa e giubbino lucido, accanto all’amico Flamur che ha una storia identica alla sua, a raccontare che ha preso la licenza media, segue un corso da panettiere e deve farcela a ogni costo perché un’unica immagine lo rasserena: il volto di Erleta, “il mio amore. La porterò qui, quando potrò darle un futuro”. 

Flamur, anche lui dal Kosovo.

Milano affronta un’emergenza nuova: l’aumento degli adolescenti migranti che approdano qui soli e spaesati, facili esche per ogni genere di delinquenza. Nel 2011 ne sono arrivati 383 (contro i 273 del 2010) e quest’anno, per ora, sono circa 200.
Il Comune non sapeva dove collocarli, così s’è rivolto a padre Clemente Moriggi della Fondazione Fratelli di San Francesco d’Assisi, che ha aperto un centro per 40 di loro in via Calvino, zona Sempione, dentro un edificio color amaranto con le camere a tre letti e il refettorio che si trasforma in aula scolastica e in sala giochi.
“Sono gli ultimi fra gli ultimi” spiega Rossella Zenoni, responsabile del centro. “Altre comunità li hanno rifiutati perché vicini alla maggiore età, e dunque c’è poco tempo per costruire un progetto per loro”.
Se da minorenni i ragazzi stranieri hanno diritto all’accoglienza, allo scoccare dei 18 anni cambia tutto: si può prolungare il permesso fino ai 21, e poi devono lavorare altrimenti c’è l’espulsione, come per qualsiasi clandestino.
“Da noi studiano, imparano l’italiano, accedono alle borse lavoro” prosegue Rossella. “Tanti ex ospiti di altri nostri centri oggi sono elettricisti, idraulici, informatici. Si sono costruiti una vita qui”.

Un ragazzo africano alla classe di lingua italiana.
In via Calvino sono diversi gli egiziani di religione copta, con una croce tatuata sul polso, fuggiti dalle persecuzioni. E i bengalesi piccoli come bambini, i kosovari, gli africani dagli occhi induriti e un solo afgano: è venuto in camion dalla Grecia con il fratellino che non smetteva di piangere, stava in infradito sotto la neve, e la balbuzie tradisce la sua agitazione.
Per chi scappa da guerre e miseria vera, la nostra crisi economica è poca cosa: Milano resta la città dei sogni, dove sarà facile ottenere documenti e lavoro. Qui approda chi non intende proseguire il viaggio: la maggior parte dei ragazzini soli che sbarcano ogni anno in Italia (7.750 nel 2011, contro i 4.588 del 2010) tentano invece l’avventura verso Germania e Inghilterra, fino alla grande chimera, la Scandinavia. 
Nella casa della Fondazione San Francesco, si riconciliano con l’adolescenza grazie a cose che non avevano mai avuto: la scuola, la paghetta settimanale di 5 euro, i pomeriggi in giro per Milano, le regole. C’è un giovane del Ghana che a 16 anni ha dovuto uccidere in una faida tribale, ha guardato morire il padre e i fratelli, è scappato per non finire in carcere. E l’egiziano Abdul, che sul gommone dalla Libia alla Sicilia ha visto lo scafista sparare a un ragazzo che piangeva perché aveva paura del mare, e lui è rimasto giorni con il cadavere del compagno accanto, prima che fosse gettato in mare.
“Il viaggio innesca una disgregazione del loro io” analizza lo psicologo del centro, Deni Alfano. “Lo raccontano con distacco, come se fosse capitato ad altri. Quelli che invece sanno ancora piangere e soffrire, possono salvarsi”. Per questo è importante sottrarli alla strada: “Chi arriva per primo, fa di loro ciò che vuole” prosegue l’esperto. “Senza un contenimento affettivo e relazionale, rischiano di essere risucchiati dalle scorie della nostra società”. 
Nessuno ha scelto di sradicarsi. Per tutti, dall’Egitto al Bangladesh, è la famiglia che decide, designando il figlio più adatto al compito. Lui, l’eletto, subisce la scelta, ha l’ansia di trovare lavoro per non tradire il mandato paterno e ripagare il debito contratto dai genitori per il viaggio.
Come Koré, partito dal Bangladesh per sentenza di uno zio: 2.500 euro per tre mesi attraverso India, Pakistan, Iran, con lunghe marce senza cibo. “Dormivamo nei boschi, sotto gli alberi” racconta. Sbarcato ad Ancona, prende un treno per Milano in cerca di altri bengalesi: lo ospitano, poi lo portano in questura. E adesso sistema rapido i tavoli per il pranzo, dopo la lezione mattutina d’italiano.
Paiono docili e confusi come Bilal, il protagonista del film Welcome, giovane iracheno che vuole attraversare la Manica a nuoto per amore. Ma se per lui sarà tragedia, per Kastriot, Koré e gli altri che ora attendono la gita al Castello Sforzesco, Milano si sta davvero rivelando la città dei sogni.

da Io donna, 6 ottobre 2012

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