IL PROCESSO FANTASMA




Un processo incompiuto, continuamente rinviato, mentre i 24 imputati sono in carcere dal novembre del 2010, in un limbo che contraddice ogni norma giudiziaria. 
Ancora Sahara Occidentale, ancora Marocco. I 24 Saharawi arrestati dopo la protesta di Gdeim Izik, in Sahara Occidentale (il preludio alle primavere arabe delle quali i media ci hanno raccontato più diffusamente), non perdono la speranza ma restano il simbolo della storia tormentata del Sahara Occidentale, l’ultima colonia d’Africa. Un doloroso caso geopolitico impantanato dal 1975, nello scarso interesse della comunità internazionale. 
Ieri, primo febbraio, avrebbe finalmente dovuto celebrarsi il processo, dopo tanta attesa. E invece è stato ancora rimandato dalle autorità marocchine, che forse così sperano di liberarsi degli osservatori internazionali (anche italiani) che sono arrivati nei giorni scorsi a Rabat per assistere a un caso giudiziario che di certo segnerà la storia del Sahara Occidentale.

Amnesty International denuncia la prima, grande anomalia di questo processo: “Il giudizio di civili davanti a una corte militare non risponde ai criteri riconosciuti internazionalmente per un giusto processo. I 24 imputati devono essere portati davanti a una corte civile per una garanzia di rispetto dei loro diritti, e in nessun caso si dovrà arrivare a una sentenza capitale” ha dichiarato ieri Philip Luther, direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa.

Mi trovavo a Laayoune, capoluogo del Sahara Occidentale, un anno fa, quando era in programma a Rabat la prima udienza per i 24 saharawi. Insieme alla fotografa Simona Ghizzoni, ho passato del tempo con Brahim Dahane, attivista per i diritti umani, e con i membri della sua associazione ASVDH. Ecco il reportage che ho scritto per la rivista Africa.

LA PRIGIONE INVISIBILE
Davanti a un piatto di cous cous con stufato di cammello, nella sua casa all’angolo dell’avenue Mekka, Brahim Dahane racconta con singolare serenità i suoi anni di carcere. La prima volta nel 1987, prelevato a forza e rinchiuso in una prigione segreta fino al ’91: aveva partecipato alla manifestazione d’accoglienza della missione dell’Onu Minurso a Laayoune. La seconda tra il 2005 e il 2006, con lo scoppio dell’intifada saharawi. Infine, nell’ottobre del 2009, viene arrestato all’aeroporto di Casablanca con sei amici, di ritorno da un viaggio nei campi profughi saharawi in Algeria.
Brahim resta in carcere fino al 14 aprile 2011, e ancora oggi è in libertà vigilata: rischia la pena capitale, un tribunale militare marocchino lo accusa di "alto tradimento alla patria". Parole che sanno di beffa perché la patria, per lui, non è il Marocco. E’ questo il suo peccato originale. 

Brahim Dahane
Presidente dell’Associazione saharawi delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani (Asvdh), fuori legge per le autorità di Rabat (nonostante le sentenze favorevoli di due tribunali marocchini), Brahim Dahane a Laayoune è il pregiudicato numero uno tra gli attivisti per l’indipendenza del Sahara Occidentale. E basterebbe passare in rassegna la vita di quest’uomo elegante e affabile per ottenere una mappa concisa della tormentata storia della sua terra.
I giornalisti non sono graditi a Laayoune, capoluogo di quelle che i marocchini chiamano “le province del Sud”: città dagli edifici arancio in un deserto che si getta nell’Atlantico. Sono arrivata in pullman da Agadir: 12 ore dentro un paesaggio che cambia a Guelmine, la “porta del Sahara” con il suo monumento ai cammelli

Guelmine, la porta del deserto

I checkpoint sono insistenti: polizia marocchina e Gendermerie Royale controllano solo me e chiedono con insistenza la mia professione. Non dico mai giornalista, ma il fatto di essere straniera basta: a Laayoune compaiono due agenti in borghese che non mi lasceranno un minuto, appostandosi sotto l’hotel e seguendomi in auto, in bicicletta o in motorino a seconda delle giornate. So di stranieri espulsi con facilità. Io invece resterò ben 20 giorni a Laayoune, ma la tensione è stata alta e forse era solo questo il loro gioco.
Per le strade è vietato fotografare. Polizia, gendarmi e agenti in borghese sono presenze ossessive, anche davanti alle scuole elementari. “Controllano che i bambini non cantino gli slogan per l’indipendenza” sorride Elghalia Djimi, signora di rara saggezza, braccio destro di Brahim Dahane, anche lei incarcerata per anni.
Le chiedo quanti siano, qui, i saharawi che vogliono l’indipendenza sotto il governo del Fronte Polisario, ma non c’è risposta: il lungo censimento svolto dalla Minurso per il referendum abortito non ha saputo neppure indicare chi abbia diritto al voto. “Gli abitanti del Sahara Occidentale sono circa 235mila” spiega Elghalia. “Noi stimiamo che un quarto sia per l’indipendenza, ma solo con il referendum avremo la risposta. Ecco il punto: la popolazione potrà anche decidere di restare sotto la sovranità marocchina, o accettare l’autonomia proposta dal re Mohammed VI, ma dev’essere il popolo a esercitare l’autodeterminazione. Lo dice il diritto internazionale”.

Il viaggio in pullman da Agadir a Laayoune

Un venerdì mattina sono andata oltre l’avenue Smara per assistere a una delle manifestazioni non violente organizzate dai saharawi 4 volte a settimana, ma sono stata bloccata da un aggressivo agente in borghese che mi ha cacciata con un secco “tornatene a casa tua”. Poche ore dopo ho incontrato la giovane Kabara Babait, picchiata dalla polizia alla manifestazione. Aveva preso forti botte al ventre. Ho anche incontrato un ragazzo disabile che ancora sanguinava.
Quella stessa mattina, a Rabat, avrebbe dovuto iniziare il processo a 24 saharawi detenuti dal novembre 2010 a Saleh, Marocco, in seguito ai fatti di Gdeim Izik: la grande protesta popolare che per alcuni, Noam Chomsky in testa, ha segnato il vero inizio della primavera araba. Ma il processo è stato rinviato, e i 24 restano reclusi senza giudizio.
La Minurso sta a guardare: è fra le poche missioni Onu a non dover vigilare sulle violazioni dei diritti umani. I suoi 510 uomini, tra militari e civili, stanno tra Laayoune, Smara e vari siti nei “territori liberati”, lembi di deserto strappati dal Polisario al Marocco durante la guerra. Controllano che marocchini e saharawi non riprendano in mano le armi, che continuino a scrutarsi da lontano lungo il “berm”, il muro di 2.700 chilometri costruito dal Marocco per separare i saharawi profughi in Algeria da quelli rimasti qui.

La sede della Minurso a Laayoune

La Minurso costa 63 milioni di dollari l’anno: non è fra le missioni più esose, ma a vedere i suoi uomini bivaccare ogni sera all’hotel Al Massira, un 4 stelle con disponibilità di alcol e donne, viene da pensare che sia tra le più inutili. Un berretto blu mi racconta delle vacanze alle Canarie, del windsurf, e quando gli chiedo: “Qual è il rischio maggiore che correte qui?”, lui mi risponde: “Che finisca la birra”.
Anche Mohamed Mayara era a Gdeim Izik. 37 anni, guida un gruppo di giovani che mandano al mondo foto e video sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dalla polizia marocchina. Lavorava in un ufficio pubblico ma ha perso il posto perché ha chiesto verità: “Nel 2005” racconta “il Comitato marocchino per la riconciliazione ha scoperto una fossa comune nella prigione di Kalat Magona, uno dei luoghi dell’orrore. Ci hanno detto che c’erano i resti di mio padre, scomparso nel ’75. Ci siamo rifiutati di riconoscerli. Dov’è la prova? Dov’è l’esame del Dna? Perché dovremmo accettare questo?”.

Mohamed Mayara

Secondo l’organizzazione saharawi Afapredesa, dal ’75 sono state 4.500 le vittime saharawi di sparizioni forzate. Di 500 di loro non si sa tuttora nulla. Nel dicembre del 2010, il Comitato per la riconciliazione istituito dal Marocco ha riconosciuto 640 “desaparecidos” saharawi, “ma non ha interpellato i parenti delle vittime” dice Mayara “né svolto un vero lavoro d’inchiesta”. Una riconciliazione di facciata per distrarre l’attenzione da Gdeim Izik, pensano in molti a Laayoune.
Così il passato resta cristallizzato in una bolla di ingiustizia, per chi come Elghalia Djimi ha perso i capelli dopo una lunga tortura a base di liquidi chimici. O come Soukaina Jid Ahloud, icona della resistenza saharawi come la più nota all’estero Aminatou Haidar: è stata 11 anni in tre prigioni segrete, con gli occhi bendati, mentre la sua figlia minore moriva di stenti. O Leila Dambar, che dal dicembre del 2010 attende che le autorità marocchine dispongano l’autopsia sul fratello Said, ucciso a 21 anni dalla polizia in circostanze sospette: Said giace all’obitorio di Laayoune, la famiglia chiede verità, i fratelli hanno perso il lavoro. Leila piange, ripete: “Perché?”.
Ma quando chiedo a Brahim Dahane quale giustizia potrà lenire questo dolore collettivo, lui sorride con la levità inintelligibile della gente del deserto: “Ho conosciuto la tortura, il carcere, e ascoltato centinaia di testimonianze terribili. Sono stanco. Voglio solo una vita normale per i miei figli: che possano andare in spiaggia, costruire case, uscire con le belle ragazze. Non invoco vendetta, no. Vorrei votare al referendum, per leggere la parola fine in fondo alla storia”.


LA PROTESTA DI GDEIM IZIK
Nell’ottobre del 2010, 20mila persone hanno costruito un campo tendato a Gdeim Izik, 12 chilometri da Laayoune. Non parlavano di indipendenza, ma chiedevano condizioni sociali ed economiche più dignitose: solo 200 saharawi, infatti, lavorano nelle miniere di fosfati di Bou Craa, contro 1.700 marocchini, e i saharawi sono esclusi anche dall’agricoltura in serra a Dakhla, nel feudo personale del re Mohammed VI.
A Gdeim Izik resistono un mese, “era la prima volta che ci sentivamo liberi” racconta chi l’ha vissuto. L’8 novembre interviene l’esercito marocchino, con un bilancio di 160 incarcerazioni e 13 morti. Oggi, nel sito dell’”accampamento della dignità”, un cartello vieta di piantare le haima, le tende tradizionali saharawi.

Il sito di Gdeim Izik

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