IL COMMERCIO EQUO E' IN CRISI?


Il commercio equo e solidale non conosce flessione. Anzi, con un più 15 per cento di fatturato raggiunto nel 2013, viaggia in controtendenza rispetto alla crisi economica globale.

E’ quanto suggeriscono i dati appena diffusi da Fairtrade, l’organizzazione capofila nel circuito del commercio equo certificato, che comprende 1,4 milioni di lavoratori in 74 Paesi. L’anno passato ha dunque visto crescere le vendite nel settore dell’acquisto etico (quello che garantisce il giusto salario per i lavoratori e il rispetto dell’ambiente) fino a 5 miliardi e mezzo di euro, e in Italia il comparto ha segnato più 17 per cento
In Europa, ai primi posti per consumi di prodotti etici ci sono Gran Bretagna e Germania, mentre su scala globale i protagonisti nell’acquisto sono Stati Uniti, India e Kenya. Il principe dei prodotti equi e solidali è lo zucchero (+22%), ma anche banane(+12%), fiori (+16%) e caffè (+8%) aumentano le vendite. 

C'è però chi dubita della reale bontà di questo mercato alternativo. La scorsa primavera, una ricerca della Scuola di studi orientali e africani dell’Università di Londra ha denunciato le anomalia nel commercio equo in alcuni Paesi africani: salari troppo bassi rispetto al mercato tradizionale e addirittura l'impiego del lavoro minorile, vietatissimo dal codice etico del fair trade. Il rapporto, rilanciato in Italia a settembre dalla rivista Africa, ha scatenato anche da noi molte polemiche.
Parliamo di tutto questo con Harriet Lamb, CEO di Fairtrade International.

 Il commercio equo e solidale avanza piano, ma è in costante crescita. Come spiega una simile performance in un contesto di crisi generale? 
Con la fedeltà dei consumatori: una volta compreso che comprando caffè, cioccolato o banane, stiamo aiutando le donne e gli uomini che li producono, è difficile tornare indietro. E proprio nei momenti di crisi la gente è più disposta a supportare chi è in maggiore difficoltà: la crisi riporta ai valori importanti, e il commercio equo è in sintonia con questo mood. Oggi, sempre in risposta alla crisi economica, le persone sono sempre più interessate a stili d’acquisto alternativi e diretti: così gli italiani comprano formaggio e carne dai contadini locali, e caffè e banane attraverso il commercio equo. Su scala globale, 8 persone su 10 sono convinte che le aziende possano giocare un ruolo importante, attraverso il loro modo di fare business, nel ridurre la povertà. 

Lei è amministratore delegato di Fairtrade International da due anni, ma da tempo partecipa a campagne per sostenere i piccoli produttori dei Paesi in via di sviluppo. Come s’è avvicinata a questo settore?
Avendo vissuto in India da bambina e da ragazza, ho sempre conosciuto il volto inaccettabile della povertà e in seguito ho lavorato per cambiare il sistema che mantiene la gente nella miseria, pensando alle parole di Gandhi: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Un incontro importante fu quello con Maria, in Costa Rica: suo marito lavorava nella piantagione di banane di una multinazionale ed era stato esposto a una sostanza chimica che ha comprovati effetti negativi sul sistema riproduttivo umano. Decine di migliaia di persone in Centro America erano diventate sterili. Maria riuscì ad avere un figlio, ma la testa del bimbo era più grande del corpo, gli occhi e il naso erano uniti, una parte di cervello mancava. Piangendo, lei mi disse: “Non ci sono parole per descrivere la vita di mio figlio”. Allora sapevo, come so oggi, che dobbiamo creare un modo di fare commercio che metta al primo posto le persone: mi sono unita a Fairtrade per tentare di creare questa alternativa”. 

Quanto le donne sono protagoniste del commercio equo e solidale, come produttrici e come consumatrici?
“Tra i consumatori sono decisamente in prima linea. All’interno di Fairtrade quasi la metà siamo donne, presenti anche nel board internazionale, e le donne sono la maggioranza dei lavoratori nei settori del tè e dei fiori. In India e Sri Lanka raggiungono il 55 per cento nelle piantagioni a marchio Fairtrade. Tuttavia, spesso svolgono mansioni mal pagate ed è una grande sfida supportarle, un percorso lento verso il cambiamento. Nelle piccole cooperative dominano ancora gli uomini, che possiedono la terra, ma tante realtà sono impegnate nella partecipazione femminile e nell’istruzione delle ragazze: abbiamo donne che guidano cooperative di caffè o che producono burro di karité in Burkina Faso e Mali, o specializzate in olio di argan in Marocco. Uno studio dell’Università di Greenwich mostra come le donne percepiscano maggiormente, rispetto agli uomini, i benefici del commercio equo (nella foto una donna del Costa d'Avorio con il raccolto di cacao ndr). 


Un recente rapporto della Scuola di studi orientali e africani dell’Università di Londra evidenzia però delle anomalie che gettano ombra sul commercio equo: salari troppo bassi, lavoro minorile... Che cosa risponde? 

Fairtrade è un sistema in divenire grande e complesso, che cerca di rispondere passo dopo passo alle sfide legate alla povertà nei Paesi in via di sviluppo. Quello studio mette in luce alcuni aspetti critici della nostra attività in Etiopia e Uganda, con una rappresentazione parziale dei dati. Inoltre trascura gli specifici interventi operati da Fairtrade in quei Paesi, con risultati riconosciuti invece da altri studi indipendenti. Abbiamo comunque avviato controlli per approfondire alcune affermazioni della ricerca.

Ci racconta qualche esempio di successo?
Di piccole realtà di agricoltori che siano uscite dalla povertà grazie al vostro circuito? “Nella cooperativa Manduvira in Paraguay, il sogno dei contadini era possedere uno zuccherificio tutto loro. Sembrava impossibile ma poi hanno ricevuto un premio da Fairtrade, investendolo nella riparazione delle strade, in un trattore, in servizi sanitari e scuole per i figli. E quando le vendite sono aumentate, hanno finalmente aperto il primo zuccherificio al mondo di proprietà dei lavoratori. Un progetto da 15 milioni di dollari che ha creato posti di lavoro e oggi ha 200 impiegati. Un altro esempio di successo è Chetna Organics, che coltiva cotone nel sud dell’India e ha investito molto per la salute femminile e in progetti per l’acqua, oltre a preservare i semi di cotone, minacciati dalla diffusione degli Ogm”. 
Dall’11 al 26 ottobre, in supermercati, bar e caffetterie di tutta Italia, la campagna di Fairtrade “The Power of You”. Per informazioniinfo@fairtradeitalia.it


da Io donna, ottobre 2014

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