IL TESTAMENTO BIOLOGICO

Arrivo tardi, lo so bene. Ma il chiasso sulla vicenda di Eluana Englaro mi ha infastidita come da tempo non mi succedeva con quelle che io chiamo le cicliche notizie ossessive. Avrei voluto trovare qualcosa di intelligente da dire su tutto questo ma - confesso, che c'è di male? - non ci sono riuscita.
Mi sono occupata del tema del testamento biologico nell'estate del 2005, quando era stato approvato alla Commissione Sanità del Senato un discusso testo in materia. Ma si era arenato lì, senza mai approdare in aula per diventare poi legge. Mi chiedo come pretendeva, il nostro attuale governo, di approvare una normativa durante la corsa contro il tempo per non far morire Eluana Englaro. Quando sono almeno 15 anni che si discute di come regolare per legge l'abisso del fine vita e la politica si arena sempre sugli stessi scogli: l'eutanasia; l'alimentazione e l'idratazione artificiali.
L'unico, minuscolo contributo che mi sento di dare è il mio articolo dell'agosto del 2005 (pubblicato da Io donna). Che faceva capire, già allora, quanto frastagliata sarebbe stata la strada verso un consenso.

IL TESTAMENTO DIVENTA BIO
La forma conta poco. Può somigliare a un modulo da compilare, ma anche a un qualsiasi foglio bianco sul quale indicare con precisione le terapie che accettiamo o rifiutiamo se un giorno ci capiterà di ammalarci o di scivolare tra la vita e la morte.
I ciclici dibattiti sull’eutanasia e sul coma confinano sempre con questo oggetto delicato e ambiguo, potenzialmente capace – per molti – di regalare tranquillità in vista di incerti scenari futuri: il testamento biologico, detto anche living will o biocard, è infatti l’unico strumento che promette di preservare la nostra libertà di scelta perfino se perdessimo coscienza e parola.

In Italia non possiamo ancora elaborare questo genere di estreme volontà con la certezza che saranno rispettate, ma un primo passo per dare al testamento biologico un valore legale è stato compiuto. La Commissione igiene e sanità del Senato ha appena approvato un disegno di legge sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario, che ora attende il voto del Parlamento per metterci alla pari con altri Stati, dove il living will conta quasi quanto un testamento patrimoniale.
In California il Natural Death Act esiste dal 1976. Nel resto degli Stati Uniti l’Atto federale di autodeterminazione dei pazienti è arrivato nel ’90. In Canada è stato introdotto nel ’97 l’Advanced Care Planning, e anche Spagna, Olanda e Danimarca ammettono il ricorso alla biocard. Gran Bretagna e Germania non l’hanno legalizzata ma nella prassi è tenuta in grande considerazione nel decidere le terapie per i malati terminali.
«Mi aspettavo un cammino frastagliato, com’è accaduto alla legge sulla procreazione assistita, invece la proposta è stata approvata all’unanimità. Peccato che, forse per colpa del caldo di luglio, non se ne sia accorto quasi nessuno» dice il senatore di Forza Italia Antonio Tomassini, presidente della Commissione e relatore del testo di legge. Che, in sostanza, incoraggia chiunque a lasciare, in qualsiasi momento della vita, disposizioni sulle cure che vuole o non vuole ricevere in caso di malattia. Potrà modificarle quando crede e nominare un fiduciario che diventerà il suo “esecutore testamentario”, qualora il paziente perdesse la facoltà di intendere e di volere. Il documento sarà depositato in un registro riservato e gestito dai notai, per essere messo a disposizione dei medici al momento necessario.
E fin qui non troviamo che la definizione classica di living will. Ma tra le righe emerge un nodo che non sarà facile sciogliere: il medico non è obbligato a rispettare automaticamente le richieste del malato, perché la sua professione ne risulterebbe umiliata. E il concetto di eutanasia è del tutto assente: il medico non sarà mai autorizzato a porre fine alle sofferenze del paziente con la morte, perché per il nostro Codice penale sarebbe un omicidio volontario o un’istigazione al suicidio.
L’unico vincolo, per il medico, resta quello di non praticare l’accanimento terapeutico, che già la sua deontologia condanna. Un circolo che, secondo qualcuno, rende il testamento biologico un inutile surplus: «Se il medico può discostarsi dalle direttive anticipate, è inutile scriverle perché saremo nelle sue mani esattamente come oggi» osserva Valerio Pocar, sociologo del diritto all’Università di Milano-Bicocca e presidente della Consulta di Bioetica, un’associazione laica che aveva elaborato uno dei disegni di legge confluiti nel testo Tomassini. Da anni, dal loro sito (www.consultadibioetica.org), si può scaricare un modello di biocard da affidare al proprio medico o alla Asl: «Migliaia di persone lo hanno fatto» assicura Pocar «ma poiché non ha valore legale, non ci è dato sapere quanti ospedali l’abbiano rispettato».
La posizione ufficiale dei medici, per ora, è senza equivoci: «Noi ubbidiamo alla nostra deontologia» dice Gilberto Del Barone, presidente dell’Ordine «che sovrasta qualsiasi testamento biologico, anche di fronte a una legge dello Stato».
Eppure c’è chi è convinto che, nonostante tutto, la biocard modificherà profondamente il rapporto medico-paziente: «Ci vuole un equilibrio tra la competenza scientifica del medico e le intenzioni, spesso generiche e grossolane, del malato» puntualizza Francesco D’Agostino, presidente del Comitato nazionale di bioetica, che nel 2003 si era espresso sul tema con un documento prudentissimo. «La novità è che il medico avrà sì l’ultima parola, però per legge dovrà spiegare nella cartella clinica perché non rispetta le volontà del malato. Questa è un’immensa garanzia: oggi il medico non rende conto a nessuno, e capita che consideri un malato terminale alla stregua di un semplice corpo. Con il testamento biologico la sua attenzione cambierà».
La legge lascia in sospeso un’altra questione tanto discussa nei mesi scorsi: lo stato vegetativo permanente, che annulla le funzioni superiori del cervello e in Italia riguarda 1.500 persone. I casi come l’americana Terri Schiavo, o come Eluana Englaro, la donna di Lecco per la quale il padre vorrebbe interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiali che la tengono in vita.
Il punto sta proprio qui: secondo il Comitato nazionale di bioetica, dare da bere e da mangiare a un corpo ridotto a un vegetale non è una terapia medica, ma «un semplice atto umano che infatti anche i parenti del malato possono effettuare da soli, a casa» spiega D’Agostino. Allora, visto che non è accanimento terapeutico, nel testamento biologico non potremo mai scrivere «se entrerò in coma, non nutritemi più» perché sarebbe una richiesta (illegale) di eutanasia.
«Invece esiste un’altra scuola di pensiero, altrettanto autorevole, che classifica l’alimentazione e l’idratazione artificiale tra gli atti medici» ribatte Valerio Pocar. E ricorda una commissione istituita nel 2000 da Umberto Veronesi, allora ministro della Sanità, che li classificava proprio come terapie sproporzionate e poco rispettose della dignità dell’individuo. Un chiaro esempio di accanimento, insomma. Lo stesso hanno stabilito gli esperti dell’American Academy of Neurology, e anche una fonte insospettabile: il Pontificio Consiglio per la pastorale degli operatori sanitari, in un documento del ’94. «Vi si legge che si tratta di cure dovute, a meno che non siano gravose per l’ammalato» spiega Demetrio Neri, ordinario di Bioetica all’Università di Messina e membro sia del Comitato nazionale di bioetica che della Consulta milanese.
«Anche la chiesa, in sostanza, suggerisce di non generalizzare ma di guardare al singolo caso, perché quando la capacità di assimilazione di un organismo è ridotta, l’alimentazione artificiale può risultare gravosa. Spero che anche il legislatore si orienterà in questa direzione, altrimenti quella sul testamento biologico rischia di diventare una legge beffa».

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