GRAZIELLA NON ABITA PIU’ QUI
Piero Campagna sulla lapide che ricorda la sorella nel luogo dov'è stata ammazzata.
La Corte di Cassazione, prima sezione penale, ha confermato le condanne all'ergastolo per Gerlando Alberti junior e Giovanni Sutera. Mi arriva ora la notizia per sms.
Ma chi sono costoro? Gli assassini di una ragazza innocente, che mentre veniva ammazzata con cinque colpi di lupara, il 12 dicembre del 1985 a Villafranca, Messina, non capiva perché. Si chiamava Graziella Campagna. Ed è stato solo grazie alla sovrumana tenacia del fratello carabiniere, Piero, che il caso non è finito affossato come tanti omicidi di mafia, in Sicilia come altrove. Sebbene condannare i due esecutori materiali del delitto non sia ancora abbastanza: c'è un reticolo, dietro questa triste storia, ancora da far emergere.
Ne avevo scritto nell'ottobre del 2007, alla vigilia del processo d'appello, su Io donna.
Ecco la storia di Graziella.
Curve sterrate s’inerpicano sui monti Peloritani per boschi deserti. Una rampa sconnessa, difficile da scorgere e da superare con l’auto. Uno spiazzo. Profumo di eucalipto che impregna il placido panorama sul Tirreno e quasi stordisce. Si vedono le case di Villafranca, a est c’è Messina e lo stretto.
Graziella Campagna era rannicchiata come se dormisse, ai piedi di questo forte militare diroccato e spettrale. Indossava un giubbotto rosso, pantaloni e stivali neri. La faccia rivolta alla terra umida di pioggia, il braccio piegato per difendersi, l’orologio fermo alle 21 del 12 dicembre 1985. Aveva 17 anni e sogni semplici da ragazza di paese. L’hanno ammazzata con cinque colpi di lupara.
L’ultimo le ha trapassato la tempia destra ma non è riuscito a sfigurarle il viso di bambina timida, occhi neri e riccioli corti, che ora ci sorride dalla foto su una lapide scura. La famiglia l’ha posata quassù nel 2005, a vent’anni dall’assassinio. E suo fratello Piero – carabiniere, che in questo tempo infinito non ha mai smesso di cercare la verità e oggi è uomo di 44 anni indignato e invecchiato – scostando dal marmo i fiori secchi ripete: «Bastardi. Che gli costava andare da mio padre e dirgli: “Tua figlia non deve parlare”? Invece le hanno sparato come a un animale. Le ho sentite le sue grida nella mia testa. Moriva e non sapeva perché».
Quella di Graziella Campagna è una crudele storia di mafia impantanata tra depistaggi e omissioni giudiziarie. La vedremo presto su Rai Uno nel film La vita rubata, con Beppe Fiorello che interpreta la rabbiosa tenacia di Piero Campagna. «Speriamo che basti a spiegare» si augura Piero, al quale non è bastata una giornata per raccontarci la vicenda giudiziaria ambigua e zoppicante alla vigilia dell’ennesimo atto: il 23 ottobre si apre a Messina il processo d’appello contro Gerlando Alberti junior e Giovanni Sutera, i due mafiosi palermitani condannati in primo grado all’ergastolo. Ma la famiglia Campagna - quattro sorelle e tre fratelli, un padre malato, una madre ancora vestita a lutto - sa che dietro il delitto c’è molto altro. Che Graziella, senza saperlo né volerlo, poteva scoperchiare un reticolo di connivenze che invischiava imprenditori, istituzioni e magistrati. Nella provincia babba della Sicilia dove la mafia non esiste.
foto di Simona Ghizzoni (Contrasto) |
Non si arriva a nulla. Solo dopo un mese saltano fuori i nomi di Alberti e Sutera, ricercati per associazione mafiosa e traffico internazionale di droga, legati al boss palermitano Pippo Calò e da tempo nascosti a Villafranca dove si spacciano per ingegner Cannata e geometra Lombardo, clienti della lavanderia. L’8 dicembre dell’85, poco prima che Graziella scompaia, vengono fermati a un posto di blocco e riescono stranamente a dileguarsi. Il giorno dopo Graziella trova un’agendina nei loro indumenti e sussurra alla madre: «Sai che l’ingegner Cannata non è veramente lui?». I carabinieri di Villafranca li denunceranno per l’omicidio solo il 3 settembre ’86. La loro latitanza finirà nell’87.
Piero Campagna indaga da solo, mentre viene trasferito sempre più lontano dalla provincia di Messina. Registra conversazioni importanti, e alla fine ricostruisce: «Mia sorella è stata eliminata perché, se avesse visto le foto dei latitanti sul giornale, le sarebbe venuto spontaneo raccontare le loro frequenti visite in lavanderia: a volte si spogliavano nel retro o lasciavano indumenti puliti. Avrebbe riferito le consegne a domicilio nelle loro villette, riconducibili a persone in vista della zona. E lo avrebbe detto a me, il fratello carabiniere».
Avrebbe, insomma, collegato i due criminali ai gentiluomini che ne proteggevano la latitanza e i cui nomi – è probabile - figuravano nell’agendina scomparsa insieme alla borsa della ragazza. Primo fra tutti l’imprenditore Santo Sfameni, boss della zona, che nella sua masseria riceveva politici e giudici. Uno di questi (in seguito condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), in un colloquio poi confessato ai magistrati rassicura Sfameni sull’esito del processo per l’omicidio di Graziella. È lui il giudice istruttore nel primo processo ad Alberti e Sutera, annullato per un cavillo. È ancora lui nel ’90, dopo che i Campagna hanno speso i risparmi di una vita per ottenere giustizia, a prosciogliere gli imputati: il movente dell’agendina è ritenuto troppo debole.
«Non ci credevamo» sibila Piero, che parla di altri giudici e pm coinvolti e di uno strano personaggio che i carabinieri presentavano come collega e invece era amico degli assassini. «Intanto quelli erano liberi, fino a una serie di incredibili coincidenze». Piero che, per caso, registra la collega di Graziella mentre rivela gli stretti rapporti tra i latitanti e la lavanderia. Nove pentiti che collegano Alberti all’omicidio. Un’anonima professoressa che nel ’96 telefona a Chi l’ha visto? chiedendo che la ragazza di Saponara non continui a morire nell’omertà. E l’associazione antimafia Rita Atria che coinvolge gli studenti della provincia nella pubblicazione di un libro-dossier: «Il risultato? Ci hanno interrogati in caserma per ore» ricorda Nadia Furnari, la presidente, che trova un avvocato coraggioso, Fabio Repici, e il caso si riapre nel ’98. Ma il processo è farraginoso, sospeso due volte per inesistenti questioni di costituzionalità.
«Ci sono stati depistaggi da parte di personaggi istituzionali» spiega Repici. «Basta leggere le carte per capire che si tratta di un delitto commesso da mafiosi per tutelare se stessi e alcuni delinquenti di Stato».
La sentenza arriva l’11 dicembre 2004, Graziella avrebbe 36 anni: ergastolo per gli ex latitanti, favoreggiamento per la collega di Graziella e la titolare della lavanderia. Suo marito, che secondo Piero ha gravi responsabilità, ne esce pulito e muore d’infarto poco dopo. «Non è finita» continua Piero. «Le motivazioni della sentenza sono state depositate in ritardo, così gli assassini sono tornati liberi. Che giustizia è questa? Non ci basta che l’appello confermi le condanne: deve far luce sui mandanti e su chi ha consegnato mia sorella ai suoi carnefici. Lei saliva in macchina solo con chi conosceva bene: non crederò mai che abbia accettato un passaggio dal presunto ingegner Cannata…».
Piero ha occhi neri ed esausti dopo aver percorso con noi, sotto la pioggia come il 12 dicembre dell’85, i luoghi della breve esistenza di Graziella: la lavanderia che ha cambiato nome, la sua vecchia scuola, la piazza San Niccolò a Saponara dove la corriera la lasciava ogni sera. Il paese le ha intitolato una palestra. La sua tomba è una tavolozza di fiori. La sua camera non esiste più: la madre ha cancellato da casa ogni traccia della sua picciridda perché - ci dice in un dialetto sofferto - «u duluri nun si jetta mai».
«La sera prima della sentenza sono crollato» confida Piero. «Immaginavo un’altra assoluzione, altri anni di rabbia e ingiustizia... Era dicembre. Sentii cantare un merlo, che canta solo in primavera. Mi ricordai di quando rientravo dalla caccia con i merli e Graziella mi diceva: “Sei cattivo. Non è più bello vederli volare liberi?”. Forse quel merlo era lei che mi diceva “stai tranquillo”. E non ho più voluto farmi giustizia da me».
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