NEL DESERTO DEI SENZA TERRA


I loro villaggi sono occupati dal Marocco, le loro tende di profughi sono ospitate in Algeria. Da trent’anni i Saharawi combattono per tornare a casa. Prima con i kalashnikov, ora con i blog e l’istruzione alle donne. Ma molti sono stanchi di questa pace inutile. E preparano la prossima guerra africana

È una storia istericamente ferma, impantanata, quella dei Saharawi che da oltre trent’anni aspettano di riprendersi la loro terra, il Sahara Occidentale. La striscia desertica (ma dal sottosuolo ricco di fosfati e dal mare pescosissimo) che in molte mappe vediamo tratteggiata, sotto il Marocco e giù fino alla Mauritania. I marocchini lo chiamano Sahara marocchino, appunto.
Ieri l’inviato personale del Segretario generale dell’Onu per il Sahara Occidentale, Christopher Ross, si è detto ottimista sul rilancio dei colloqui, bloccati da due anni dopo un fallimentare tentativo sempre mediato dall’Onu.
Risolvere la decolonizzazione abortita del Sahara Occidentale (che apparteneva alla Spagna) significherebbe diluire le tensioni fra Marocco e Algeria, che da sempre appoggia i Saharawi e ne ospita parecchi nei campi profughi del sudovest, attorno alla cittadina di Tindouf.

Il mio reportage, uno dei viaggi più indimenticabili. L’ho pubblicato quando sembrava che qualcosa si muovesse, nell’agosto del 2007.

LA PISTA RIPIDA CORRE TRA COLLINE SPACCATE. Sobbalza per ore la jeep rovente, lanciata verso le dune tremanti di un rosso che annienta l’ocra delle distese di fossili. Ho dovuto arrivare fino a Dakhla, il campo profughi saharawi più lontano dall’aeroporto di Tindouf, sudovest dell’Algeria, per ricevere una lezione di giornalismo secca e lucida. Me la impartisce Maima Mahmud Nayem, direttrice della scuola delle donne, mentre allieve di ogni età avvolte nelle melfah azzurre e gialle imparano l’inglese, lo spagnolo, l’informatica e la fotografia, materie che schiaffeggiano l’immobilità di questo deserto a 50 gradi.
Maima ha 34 anni, un’aria dolce e impaziente. Si è laureata in ingegneria a Cuba, il paese che con Libia, Algeria e Spagna offre più borse di studio a questi eterni profughi. Mi spiega che le ragazze al computer costruiscono un blog su internet per comunicare oltre il loro asfissiante destino. Poi Maima esplode. «A voi giornalisti non importa niente di noi. Cercate storie morbose, di poveracci che si ammazzano per un pezzo di pane, e i Saharawi non sono così. Da noi non esiste analfabetismo né violenza domestica. Il nostro Islam valorizza le donne, libere ed emancipate. Venite a guardarci come fossimo leoni in gabbia e intanto mantenete i funzionari dell’Onu che stanno qui dal ’91 senza aver mosso un dito». Incasso. Avanzo un’unica, deprimente ipotesi: «Forse non si parla di voi perché non vi fate saltare in aria».

La rabbia che trasfigura Maima è il sentimento più ostinato e palpabile nei campi profughi attorno a Tindouf, geometriche distese di tende e baracche che il popolo saharawi abita da oltre trent’anni, nutrito dagli aiuti internazionali.
La loro è una decolonizzazione incompiuta: vivevano nel Sahara Occidentale, la regione a sud del Marocco che nelle mappe resta tratteggiata come una dannata no man’s land.
Era una colonia della Spagna, che nel 1975 la cede a Marocco e Mauritania in cambio dello sfruttamento dei suoi fosfati e del mare pescoso. Accordo illegittimo: l’Onu e la Corte dell’Aja avevano sancito il diritto dei Saharawi a decidere la loro indipendenza con un referendum.
Invece vengono cacciati dai coloni marocchini e da bombe al napalm. Duecentomila marciano nel deserto fino all’Algeria, che li accoglie come rifugiati. Altri rimangono nel Sahara Occidentale, oppressi e incarcerati fino a oggi se inneggiano alla Rasd, la Repubblica araba saharawi democratica fondata nel ’76 dai Saharawi in esilio. Il suo braccio armato, il Fronte Polisario, fa guerra al Marocco (la Mauritania si ritira subito) fino al ’91: nomadi a dorso di cammello tengono testa all’esercito di Rabat, abbattono aerei a colpi di kalashnikov e riconquistano la striscia orientale del loro territorio, deserto verde di acacie e carrubi.
A lungo il Marocco nega il sangue versato in questo spicchio di nulla, ma i Saharawi collezionano documenti dei soldati avversari e ogni relitto di missili, mine e carri armati, per farne un museo a cielo aperto che resta una toccante testimonianza di dramma e pietà.
Dal ’91 l’Onu, con la missione Minurso, controlla che i nemici non si riarmino. La tregua doveva preludere al referendum sul Sahara Occidentale, ma tutto stagna da allora: i piani di pace cadono nel vuoto, i rigurgiti di violenza del 2005 fanno parlare di intifada nel deserto. Il Marocco non cede il Sahara Occidentale, ricco anche di petrolio, e propone un’autonomia sotto la propria sovranità. I Saharawi non ci stanno, chiedono il referendum.

Quest’anno sono ripartite le trattative mediate dall’Onu, subito chiuse a pedine ferme: l’ultimo incontro del 10 agosto a New York ha visto una maggiore rigidità di Rabat e prodotto solo l’ennesimo rinvio. Nessuna potenza occidentale preme sul Marocco, irrinunciabile alleato nel Maghreb contro il terrorismo islamico, alimentando la tensione con l’Algeria che appoggia la Rasd.
L’ultima polveriera d’Africa: ecco come appare il deserto roccioso, suggestivo solo al tramonto, dove i rifugiati saharawi governano un efficiente Stato in esilio. Hanno un presidente della Repubblica, Mohammed Abdelaziz, sempre rieletto dal ’75; ministeri, Parlamento e divisioni amministrative. La Rasd fa parte dell’Unione Africana - il Marocco ne è uscito per questo - è riconosciuta da 78 paesi (ma non da Usa e Ue) e ha ambasciatori sparsi per il globo, compresa l’Italia. È l’unico caso al mondo di autogestione degli aiuti umanitari: una società di sabbia, popolata da poliglotti e laureati che sognano il mare del Sahara Occidentale. Ogni profugo vi ha lasciato una madre, un fratello, un figlio.
«Nel ’75 avevo otto anni» racconta Mohammed Yeslem, ambasciatore saharawi ad Algeri. «Mi sono incamminato nel deserto con mio zio pensando che non avrei visto i miei genitori solo per qualche settimana. Sono 32 anni».

Nell’afa paralizzante di lenti pomeriggi, i profughi si concedono solenni riti del tè porgendo tre bicchieri: amaro come la vita, dolce come l’amore, soave come la morte. Nessuno crede più nell’Onu: è la guerra ad aleggiare tra sguardi e parole. «Siamo giocattoli della comunità internazionale» esplode Ardati Muhammed, trent’anni, che nel centro culturale di Dakhla cerca in Internet notizie sul Sahara occupato. Ne trapelano poche: la polizia marocchina espelle i giornalisti, arresta i manifestanti e il 4 agosto ha sequestrato l’auto al giudice italiano Nicola Quatrano, consulente dei Saharawi.«Non abbiamo soldi per comprare esplosivi» aggiunge Ardati «ma se la nostra testa si surriscalda, stai certa che li troveremo».
La moglie del presidente della Rasd, Hadija Hamdi, usa toni più moderati in un francese impeccabile: «Investiamo in istruzione» mi dice nella piazza polverosa del campo “27 febbraio”. «Abbiamo creato biblioteche e centri culturali, e incoraggiamo le donne alla partecipazione politica nell’attesa di riavere la nostra terra».
I Saharawi stanno ripopolandole strisce di frontiera, quelle che corrono lungo i 2.700 chilometri del muro di sabbia, cemento e filo spinato eretto dal Marocco per separarli dal Sahara Occidentale. Solo i berretti blu della Minurso vi passano attraverso. Noi lo guardiamo a distanza: il terreno rigurgita di mine marocchine e i cammelli saltano in aria a grappoli. Si passa di qui per l’avamposto militare di Tifariti, zona-tampone controllata dall’Onu e scelta per ospitare il referendum, se mai avverrà. Capolinea mistico e tragico, un deserto dei Tartari dove i nemici si scrutano immobili e la caserma è una labirintica madrasa bianca che sembra un quadro di De Chirico, appena le ombre s’allungano.
I militari saharawi arrostiscono fegato di cammello e non cessano di addestrarsi. «Siamo stanchi di una pace inutile» confessa il comandante Brahim Beidella «il nostro ideale ci rende più forti del nemico». Pochi passi più in là, nella tenda della Minurso con tv satellitare e aria condizionata, un capitano italiano si lascia sfuggire: «Se marocchini e saharawi si riarmeranno, noi saremo gli ultimi a saperlo».

(dopo l'uscita dell'articolo su Io donna, sono stata convocata d'urgenza dall'ambasciatore del Marocco a Roma.... to be continued....)

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