LE SIGNORE DELL'OBIETTIVO
foto di Cristina Garcia Rodero
Letizia Battaglia, la madre. Shobha, la figlia. Condividono il legame “di pancia” con Palermo e l’etica (oggi sbiadita) delle immagini di cronaca. Ma soprattutto l’amore per la fotografia. Quella che può cambiare le cose
Letizia Battaglia è refrattaria alle etichette ma a 75 anni è ormai consapevole che quella di “fotografa della mafia” non se la scrollerà mai più di dosso. Aveva iniziato per istinto e militanza, come ama dire, ignorante della tecnica, scattando per il coraggioso quotidiano L’Ora. Il suo bianco e nero ha fissato la Palermo dei morti ammazzati degli anni Ottanta e Novanta, facendosi storia e documento.
Shobha Battaglia, 56 anni, è la seconda delle sue tre figlie, l’unica che abbia sfidato una madre tanto immensa sul terreno della fotografia.
Anche se lei ha scelto la lontananza dalla Sicilia, ha scelto l’Oriente e l’India (dove ha cambiato il suo vero nome, Angela, in Shobha, che significa splendente). Quando torna a Palermo abita un piano sopra Letizia, due appartamenti con una scala interna, un dialogo d’arte, rispetto e sentimenti.
Mentre esce per Bruno Mondadori il libro di Giovanna Calvenzi Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, e la Triennale di Milano la celebra in una collettiva di grandi artiste contemporanee (Disqueting Images, fino al 9 gennaio), incontriamo madre e figlia per capire la loro relazione. Fatta di simbiosi e misurata distanza.
Qual è la differenza tra Letizia e Shobha fotografe?
Shobha. Mia madre dice che il mio “poetico contatto con le cose della vita” mi ha protetta dalla disperazione. Ed è vero. Anche nelle fotorafie sono di denuncia, in realtà cerco sempre la bellezza, la poesia, la gratitudine, altrimenti morirei. Forse perché ho un carattere più dolce del suo, ho meno rabbia, meno dolore. E poi io sono una viaggiatrice, una indipendente: non voglio sedurre, non ho un compagno perché avrei dovuto faticare a conquistarlo.
Letizia. Lei ha sofferto a fotografare la mafia e la cronaca nera, ne ha disgusto. Anch’io ho sofferto, ma a differenza di mia figlia io l’ho sentita come una necessità assoluta: non avrei potuto scegliere altro, come ha fatto lei. Per me era un imperativo categorico usare la macchina fotografica o tutta me stessa in questa che chiamo militanza: il tentativo di fare in modo che le cose vadano diversamente.
E’ per questo che il vostro sguardo sulla mafia è tanto diverso?
Shobha. Lei ha vissuto in altri tempi. Io avevo studiato in America, tornavo a 27 anni in Sicilia per conoscere la mia terra e ho affrontato tutti i suoi dolori da dietro l’obiettivo. Proteggendomi. C’era rinnovamento, le donne antimafia si univano, c’era una condivisione che mia madre non ha vissuto. Lei ha visto sempre morti ammazzati, ed era sola: una donna di 40 anni, separata, giudicata, che viveva con un uomo molto più giovane (il fotografo Santi Caleca, ndr). Per essere forte non doveva ascoltare nessuno. A me terrorizzavano quasi, le sue immagini: era come essere costantemente in guerra. Quando ho capito che avevo paura di questa terra, mi sono detta: affrontala. E proteggiti come puoi.
Letizia. Shobha le ha subìte, le immagini di mafia. Per lei fotografare significa anche scappare. E cercare dolcezza, come testimoniano le sue fotografie dell’India, consolatorie e poetiche. Anch’io ho cercato la dolcezza e la bellezza, però so che non me le posso godere: sono vecchia, vorrei vedere dei risultati, so che non li vedrò però sento il dovere di restare a Palermo. La nostra differenza sta qui: nell’andarsene e nel restare.
La cosa più importante che avete imparato l’una dall’altra?
Shobha. Io imparo sempre. Ma direi il coraggio, l’etica nella fotografia, la mancanza assoluta di ambizione, la dedizione al lavoro. E l’essere militanti nella vita.
Letizia. Mi ha fatto diventare vegetariana. Ma nella fotografia no, io sento di essere la madre, non solo la sua ma di un certo tipo di fotografia.
Letizia dice che una foto di cronaca deve contenere rispetto, condivisione, ricerca della giustizia e onore per la morte che si sta ritraendo. Cosa pensate delle immagini di cronaca nera oggi?
Shobha. Vedo troppo virtuosismo. Ogni momento della vita per me contiene verità e dramma: è intimo, sacro, deve farti entrare dentro te stesso. Invece oggi vedo violenza e aggressività nelle foto, troppa post produzione, troppe immagini che passano come fumetti. Ma l’etica non te la puoi dare: o ce l’hai o non ce l’hai.
Letizia. C’è gente chi lavora bene e conserva il rispetto, ma vedo anche tanta superficialità. Forse perché, diversamente dai miei tempi, oggi siamo abituati alle immagini della fame, delle catastrofi, delle stragi, e non riusciamo più a partecipare veramente. Tanti usano la fotografia in modo banale, basta guardare come i ragazzi si rappresentano su Facebook. Io invece sento che devo onorare chi fotografo: solo se hai consapevolezza, se ami il mondo o lo detesti ma in ogni caso con forza e profondità, le tue foto avranno un senso.
Che madre è Letizia Battaglia e che figlia è Shobha?
Shobha. E’ una donna forte, sveltissima. Io sono partita per l’India a 17 anni, ma me la sono sempre trovata vicina nei momenti importanti, non mi ha mai giudicata. Lei mi ha aiutata a mettere a fuoco i lati più interessanti di me. C’è stato un periodo in cui lavoravamo insieme all’Ora, 24 ore al giorno, con il suo uomo, e non è stato facile: così ho deciso di andarmene ancora, le ho detto che avevo bisogno di camminare da sola, ma senza drammi. Lei resta la prima persona a cui mostro i miei lavori. E quando sono a Palermo, ogni giorno ci prendiamo il caffè e parliamo della vita.
Letizia. Sono stata madre a 16 anni, a 19 e a 25: ero una ragazza inquieta e una madre inquieta, non consapevole della responsabilità di avere figli. Però ho avuto grande rispetto per le mie creature, anzi, per le creature nate da me perché non sono mie. Rispetto per la loro libertà, per il loro essere altro da me. E Shobha è figlia amorevole, mi riempie di gentilezze, mi ha insegnato tanto con le sue esperienze. Continuo a dirle “vai” tacendo “mi mancherai”: la sua libertà per me è sacra, forse perché io ho avuto un padre geloso e un marito antiquato. Qualcosa che non vi siete perdonate.
Shobha. A mia mamma perdono tutto.
Letizia. Figuriamoci se io posso permettermi di perdonare o non perdonare.
Un’immagine privata, intima, di Letizia e una di Shobha che non vedremo mai nelle vostre fotografie.
Shobha. Lei oggi, distesa sul letto come una matrona, che riceve le persone, e tutti attorno. Lei giovane che porta me bambina negli orfanotrofi di Palermo e poi invita i bambini a casa e cucina cotolette per tutti di nascosto da mio padre.
Letizia. Lei che a tre anni mangiava la sabbia, la terra, l’intonaco dei muri, e io la trovavo con la bocca piena e il faccino mortificato. Lei che a 25 anni suona i tamburi, attorniata da un gruppo di giovani, come un capo tribù indiano.
Che relazione avete con Palermo oggi?
Shobha. Dura. Io sono arrabbiata con l’amministrazione comunale perché amo Palermo di pancia. Amo il suo cielo, le montagne, il mare, ma la vedo così distrutta, trattata male, che non posso fare niente e allora me ne devo andare lontano da questa città che pare una fanciulla abbandonata, senza denti né capelli.
Letizia. Siamo ancora sotto mafia, anche se non ci sono più gli omicidi. E io non esco quasi mai: porto fuori il cane alle 6 del mattino, quando è buio, giro attorno al quartiere e mi richiudo in casa. Al massimo vado al cinema. Sono molto arrabbiata, avevo sognato che ci saremmo liberati... Ce l’ho con la borghesia colta, agiata, che non fa niente per questa città piena di miseria e disoccupazione, dimostrando un egosimo feroce. Quando passo col cane davanti alle boutique di lusso, ogni volta spero che pisci sulle vetrine.
La foto dell’altra che amate di più.
Shobha. Amo molto Tre donne, scattata quest’anno, che è anche la copertina del libro di Giovanna Calvenzi: c’è una delle mie nipoti, che è il futuro; Rosaria Schifani, che è la vittima di mafia, il passato; e una scultura femmile che è la storia. Quanto alle sue foto dei morti ammazzati, non posso dire di amarle. Però amo il suo modo di scattarle.
Letizia. Una bimba del Mali, una foto che ho appena pubblicato sulla mia rivista online Mezzocielo. Gli occhi sofferenti, i capelli ricci. Struggente. Mi piacciono le foto della sua poesia, non quelle di mafia, ma in realtà non amo neanche le mie, di mafia: il mio sogno ricorrente è di bruciare i negativi, per distruggere una storia e farne nascere un’altra.
da Io donna, 23 ottobre 2010
Letizia Battaglia, la madre. Shobha, la figlia. Condividono il legame “di pancia” con Palermo e l’etica (oggi sbiadita) delle immagini di cronaca. Ma soprattutto l’amore per la fotografia. Quella che può cambiare le cose
Shobha Battaglia, 56 anni, è la seconda delle sue tre figlie, l’unica che abbia sfidato una madre tanto immensa sul terreno della fotografia.
Anche se lei ha scelto la lontananza dalla Sicilia, ha scelto l’Oriente e l’India (dove ha cambiato il suo vero nome, Angela, in Shobha, che significa splendente). Quando torna a Palermo abita un piano sopra Letizia, due appartamenti con una scala interna, un dialogo d’arte, rispetto e sentimenti.
Mentre esce per Bruno Mondadori il libro di Giovanna Calvenzi Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, e la Triennale di Milano la celebra in una collettiva di grandi artiste contemporanee (Disqueting Images, fino al 9 gennaio), incontriamo madre e figlia per capire la loro relazione. Fatta di simbiosi e misurata distanza.
Qual è la differenza tra Letizia e Shobha fotografe?
Shobha. Mia madre dice che il mio “poetico contatto con le cose della vita” mi ha protetta dalla disperazione. Ed è vero. Anche nelle fotorafie sono di denuncia, in realtà cerco sempre la bellezza, la poesia, la gratitudine, altrimenti morirei. Forse perché ho un carattere più dolce del suo, ho meno rabbia, meno dolore. E poi io sono una viaggiatrice, una indipendente: non voglio sedurre, non ho un compagno perché avrei dovuto faticare a conquistarlo.
Letizia. Lei ha sofferto a fotografare la mafia e la cronaca nera, ne ha disgusto. Anch’io ho sofferto, ma a differenza di mia figlia io l’ho sentita come una necessità assoluta: non avrei potuto scegliere altro, come ha fatto lei. Per me era un imperativo categorico usare la macchina fotografica o tutta me stessa in questa che chiamo militanza: il tentativo di fare in modo che le cose vadano diversamente.
E’ per questo che il vostro sguardo sulla mafia è tanto diverso?
Shobha. Lei ha vissuto in altri tempi. Io avevo studiato in America, tornavo a 27 anni in Sicilia per conoscere la mia terra e ho affrontato tutti i suoi dolori da dietro l’obiettivo. Proteggendomi. C’era rinnovamento, le donne antimafia si univano, c’era una condivisione che mia madre non ha vissuto. Lei ha visto sempre morti ammazzati, ed era sola: una donna di 40 anni, separata, giudicata, che viveva con un uomo molto più giovane (il fotografo Santi Caleca, ndr). Per essere forte non doveva ascoltare nessuno. A me terrorizzavano quasi, le sue immagini: era come essere costantemente in guerra. Quando ho capito che avevo paura di questa terra, mi sono detta: affrontala. E proteggiti come puoi.
Letizia. Shobha le ha subìte, le immagini di mafia. Per lei fotografare significa anche scappare. E cercare dolcezza, come testimoniano le sue fotografie dell’India, consolatorie e poetiche. Anch’io ho cercato la dolcezza e la bellezza, però so che non me le posso godere: sono vecchia, vorrei vedere dei risultati, so che non li vedrò però sento il dovere di restare a Palermo. La nostra differenza sta qui: nell’andarsene e nel restare.
La cosa più importante che avete imparato l’una dall’altra?
Shobha. Io imparo sempre. Ma direi il coraggio, l’etica nella fotografia, la mancanza assoluta di ambizione, la dedizione al lavoro. E l’essere militanti nella vita.
Letizia. Mi ha fatto diventare vegetariana. Ma nella fotografia no, io sento di essere la madre, non solo la sua ma di un certo tipo di fotografia.
Letizia dice che una foto di cronaca deve contenere rispetto, condivisione, ricerca della giustizia e onore per la morte che si sta ritraendo. Cosa pensate delle immagini di cronaca nera oggi?
Shobha. Vedo troppo virtuosismo. Ogni momento della vita per me contiene verità e dramma: è intimo, sacro, deve farti entrare dentro te stesso. Invece oggi vedo violenza e aggressività nelle foto, troppa post produzione, troppe immagini che passano come fumetti. Ma l’etica non te la puoi dare: o ce l’hai o non ce l’hai.
Letizia. C’è gente chi lavora bene e conserva il rispetto, ma vedo anche tanta superficialità. Forse perché, diversamente dai miei tempi, oggi siamo abituati alle immagini della fame, delle catastrofi, delle stragi, e non riusciamo più a partecipare veramente. Tanti usano la fotografia in modo banale, basta guardare come i ragazzi si rappresentano su Facebook. Io invece sento che devo onorare chi fotografo: solo se hai consapevolezza, se ami il mondo o lo detesti ma in ogni caso con forza e profondità, le tue foto avranno un senso.
Che madre è Letizia Battaglia e che figlia è Shobha?
Shobha. E’ una donna forte, sveltissima. Io sono partita per l’India a 17 anni, ma me la sono sempre trovata vicina nei momenti importanti, non mi ha mai giudicata. Lei mi ha aiutata a mettere a fuoco i lati più interessanti di me. C’è stato un periodo in cui lavoravamo insieme all’Ora, 24 ore al giorno, con il suo uomo, e non è stato facile: così ho deciso di andarmene ancora, le ho detto che avevo bisogno di camminare da sola, ma senza drammi. Lei resta la prima persona a cui mostro i miei lavori. E quando sono a Palermo, ogni giorno ci prendiamo il caffè e parliamo della vita.
Letizia. Sono stata madre a 16 anni, a 19 e a 25: ero una ragazza inquieta e una madre inquieta, non consapevole della responsabilità di avere figli. Però ho avuto grande rispetto per le mie creature, anzi, per le creature nate da me perché non sono mie. Rispetto per la loro libertà, per il loro essere altro da me. E Shobha è figlia amorevole, mi riempie di gentilezze, mi ha insegnato tanto con le sue esperienze. Continuo a dirle “vai” tacendo “mi mancherai”: la sua libertà per me è sacra, forse perché io ho avuto un padre geloso e un marito antiquato. Qualcosa che non vi siete perdonate.
Shobha. A mia mamma perdono tutto.
Letizia. Figuriamoci se io posso permettermi di perdonare o non perdonare.
Un’immagine privata, intima, di Letizia e una di Shobha che non vedremo mai nelle vostre fotografie.
Shobha. Lei oggi, distesa sul letto come una matrona, che riceve le persone, e tutti attorno. Lei giovane che porta me bambina negli orfanotrofi di Palermo e poi invita i bambini a casa e cucina cotolette per tutti di nascosto da mio padre.
Letizia. Lei che a tre anni mangiava la sabbia, la terra, l’intonaco dei muri, e io la trovavo con la bocca piena e il faccino mortificato. Lei che a 25 anni suona i tamburi, attorniata da un gruppo di giovani, come un capo tribù indiano.
Che relazione avete con Palermo oggi?
Shobha. Dura. Io sono arrabbiata con l’amministrazione comunale perché amo Palermo di pancia. Amo il suo cielo, le montagne, il mare, ma la vedo così distrutta, trattata male, che non posso fare niente e allora me ne devo andare lontano da questa città che pare una fanciulla abbandonata, senza denti né capelli.
Letizia. Siamo ancora sotto mafia, anche se non ci sono più gli omicidi. E io non esco quasi mai: porto fuori il cane alle 6 del mattino, quando è buio, giro attorno al quartiere e mi richiudo in casa. Al massimo vado al cinema. Sono molto arrabbiata, avevo sognato che ci saremmo liberati... Ce l’ho con la borghesia colta, agiata, che non fa niente per questa città piena di miseria e disoccupazione, dimostrando un egosimo feroce. Quando passo col cane davanti alle boutique di lusso, ogni volta spero che pisci sulle vetrine.
La foto dell’altra che amate di più.
Shobha. Amo molto Tre donne, scattata quest’anno, che è anche la copertina del libro di Giovanna Calvenzi: c’è una delle mie nipoti, che è il futuro; Rosaria Schifani, che è la vittima di mafia, il passato; e una scultura femmile che è la storia. Quanto alle sue foto dei morti ammazzati, non posso dire di amarle. Però amo il suo modo di scattarle.
Letizia. Una bimba del Mali, una foto che ho appena pubblicato sulla mia rivista online Mezzocielo. Gli occhi sofferenti, i capelli ricci. Struggente. Mi piacciono le foto della sua poesia, non quelle di mafia, ma in realtà non amo neanche le mie, di mafia: il mio sogno ricorrente è di bruciare i negativi, per distruggere una storia e farne nascere un’altra.
da Io donna, 23 ottobre 2010
Ciao! Volevo dirti che trovo il tuo blog davvero interessante, spero di leggerti ancora! Lascio un consiglio per una pagina che sono certa ti piacerà:
RispondiEliminahttp://misselizab3th.blogspot.com/
A presto e in bocca al lupo!
Complimenti per questo articolo (sto leggendo in questi gg il libro di G.Calvenzi) e, ad una prima occhiata, per il resto del blog che ora mi leggerò con calma. Spero non ti dispiaccia se ti linko al mio. Buon lavoro, Laura
RispondiEliminagrazie! Letizia Battaglia è uno dei miei miti da sempre
RispondiEliminaI love this, mia carissima.
RispondiEliminas.
di letizia & shobba mi piace la loro voglia di lottare sempre ... la loro rabbia x un presente che pensavano che un attimino fosse cambiato ... naturalmente mi piacciono le loro fotografie ed il loro essere tnt unite ma nello stesso tempo distaccate ... mi piace il loro rapporto di libertà tra madre e figlia ma sempre complici ... letizia & shobba? 2 grandi donne <3 <3
RispondiEliminaDavvero interessante il tuo blog. Buon lavoro
RispondiEliminaLucrezia
grazie Lucrezia. Tornerò presto con nuovi articoli
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