NON GIOCO PIU' ALLA GUERRA
foto di Alfredo Falvo / Contrasto
Hanno assaltato villaggi. “Eravamo bravi a uccidere” dicono. Oggi sono solo bambini. Disarmati. Li abbiamo incontrati a Goma, nell’est del Congo. Dove resta un’unica certezza: la guerra
Sono in un’aula scolastica ricavata sotto una tenda gialla ad ascoltare i racconti di un assassino tredicenne dal nome che è un desiderio, Innocent, bellezza sfrontata e ambigua, orecchino d’oro, i tatuaggi sbilenchi delle milizie Mai Mai che rendono invincibili, un rosario di plastica bianca sulla maglia sgualcita dalla partita di calcio interrotta dal temporale.
A un tratto il suo flusso di parole meccaniche e ansimate si blocca nel ghigno fiero di chi sta per dirti che è il primo della classe e invece: «Ero il migliore». A fare cosa, Innocent? «A uccidere. Non avevo bisogno del mitra, usavo il coltello. Quando catturavo i nemici non li facevo prigionieri, li sgozzavo subito. Il mio comandante lo apprezzava molto».
Cala il sole ed è subito coprifuoco a Goma, il baricentro del conflitto...
... che si trascina dal 1998 nell’est della Repubblica Democratica del Congo, con cinque milioni di morti e un milione di sfollati in nome del potere sulle ricchezze minerarie. Laurent Nkunda, il generale con gli occhialini da rockstar che a novembre aveva assediato Goma facendo tremare il presidente Kabila, tace dal 22 gennaio in una galera ruandese mentre le sue truppe sono entrate nell’esercito regolare conquistando l’impunità dai loro scempi. I ribelli di etnia hutu della Fdlr, fuggiaschi dal Ruanda dopo il genocidio, resistono nella giungla e nemmeno l’eccezionale alleanza d’armi fra Congo e Ruanda, nemici storici, ha potuto sterminarli. Le sigle Mai Mai, armate brancaleone filogovernative che abusano di riti esoterici, infestano ancora la regione del Kivu.
Per le strane leggi della notizia, i riflettori si sono spenti su Goma e dintorni eppure l’inferno ribolle identico. Da gennaio, 370mila nuovi sfollati ingrossano i campi profughi del Nord e Sud Kivu. I caschi blu della missione dell’Onu Monuc, impotenti di fronte alla maledizione di questa tenebra d’Africa, segnalano continui massacri.
Al centro “Don Bosco Ngangi”, alle porte di Goma, fisso le mani allungate di Innocent e i tagli in faccia di Mumbere, 14 anni, che ha combattuto al fianco di Nkunda e ripete come un automa «ho ammazzato militari, mai civili». Qui, in aprile si è dovuto allestire alla bell’e meglio una rimessa per affrontare l’emorragia dei soldatini di piombo, 1.200 quest’anno disarmati nel Nord Kivu dai caschi blu che li mandano al “Don Bosco” a studiare, giocare a pallone, placare incubi. Tornare a casa, forse, se un parente esiste e accetta di riprendersi un adolescente capace di sgozzare e stuprare, docile ed efficiente macchina da guerra.
Al centro ne sono arrivati 253 da gennaio. Il direttore don Mario Perez, venezuelano che ha il fegato di stare qui da dodici anni, intercala le risposte a lunghi silenzi: «Dimenticare... non so se possono. Ma quando riusciamo a riportarli in famiglia, a farli studiare, a insegnare loro un mestiere, occupano la mente e riorientano la loro vita. Sono ragazzi: recuperarli è possibile».
In questo istante, 3.500 dai 6 ai 17 anni giocano alla guerra vera nel Congo orientale. Dal 2004 la Monuc e l'Unicef ne hanno smobilitati 30 mila: 92 sono oggi coraggiosi testimoni alla Corte penale internazionale dell’Aja, nel processo al generale Thomas Lubanga che li reclutava a grappoli.
Il ribelle Nkunda li rastrellava direttamente a scuola, nelle zone di Masisi e Rutchuru, la sua roccaforte. Anche l’esercito governativo continua a schierarli in prima linea, pur avendo formalmente accettato i protocolli internazionali che lo vietano. Ma nel reame del caos un bambino è solo un corpo scattante da soggiogare con la paura e la droga, armandolo di mitra Smg.
Il centro d’accoglienza Cajed di Goma, sostenuto dall’Unicef, ha muri alti e filo spinato perché gli ex soldatini talvolta scappano per non fissare la loro immagine invecchiata allo specchio.
Solange ha 16 anni, sguardo inafferrabile, un filo di voce. Trascina la gonna colorata per il cortile, in braccio il neonato di un’educatrice come se giocare alla mamma fosse terapia ai giochi di morte. Abitava a nord, al confine con l’Ituri: è fuggita dalle torture dei genitori che l’accusavano di stregoneria (capita di frequente, ai bambini del Congo) e si è arruolata con i Mai Mai, per un anno. «Non so se ho ucciso» bisbiglia. «Quando spari non guardi dove vanno le pallottole».
Ci sono quelli truccati di durezza come Janvier, 17 anni, di cui tre nella foresta con gli hutu della Fdlr: «Ho tagliato braccia e gambe ai nemici» ride. E quelli allucinati come Joseph, splendidi occhi allungati, unghie tumefatte, dieci anni appena e cinque mesi da militare con la Fdlr, poi prigioniero e vivandiere delle truppe di Nkunda: «Sono stato io a mostrare al generale dove si nascondevano gli hutu, su a Rutchuru» racconta. «Volevo vendicarmi: erano stati loro a uccidere i miei genitori. Adesso se mi trovano mi ammazzano: sono un traditore».
Ecco perché tanti non torneranno mai al villaggio: rischiano un nuovo reclutamento o una violenta rappresaglia delle milizie, infastidite dalla perdita non tanto del bambino - in Congo l’unica cosa che abbonda è l’infanzia – quanto delle armi, sequestrate dalla Monuc.
Fa male ascoltare tremori, aggressività o ghiaccio nelle loro voci. Racconti di sangue contro natura. Ripetono “vita”, che in lingua swahili è l’opposto della vita. Significa guerra. Ed è un sollievo lo sguardo di Joseph che cambia, appena gli chiedo cosa farà da grande: «Il pasticciere, sono bravo. Anche per i colonnelli preparavo torte e bigné».
Danno un programma musicale, alla televisione sotto la tettoia di lamiera nel cortile del Cajed. I ragazzi mangiano in piedi, con le mani, piattoni di patate, carne e riso. E ballano. Joseph volteggia tenendo il piatto in equilibrio. Mi saluta agitando la manina. Da lontano è un bambino qualunque.
LA LORO VOCE A ROMA
Il 23 giugno, in Campidoglio a Roma, saranno loro a catalizzare l’attenzione: Grace, Kon e Ismail, ex ragazzi soldato nelle guerre d’Africa, oggi portavoce dei 250 mila ancora schierati nelle trincee di venti Paesi. Al convegno internazionale Bambini e giovani colpiti dai conflitti armati (organizzato da Unicef e Save the Children su iniziativa del ministero degli Esteri e del Comune di Roma), ci saranno rappresentanti dell’Onu e delle maggiori ong italiane. Per tentare, soprattutto, di trasformare chi è stato vittima in protagonista dei processi di pace. E a Goma, il centro “Don Bosco” dei salesiani ha bisogno di aiuto per continuare a garantire cibo e studio a centinaia di bambini in fuga dalla guerra.
Per sostenerli a distanza: tel. 800.123.456
Io donna, 20 giugno 2009
Hanno assaltato villaggi. “Eravamo bravi a uccidere” dicono. Oggi sono solo bambini. Disarmati. Li abbiamo incontrati a Goma, nell’est del Congo. Dove resta un’unica certezza: la guerra
Sono in un’aula scolastica ricavata sotto una tenda gialla ad ascoltare i racconti di un assassino tredicenne dal nome che è un desiderio, Innocent, bellezza sfrontata e ambigua, orecchino d’oro, i tatuaggi sbilenchi delle milizie Mai Mai che rendono invincibili, un rosario di plastica bianca sulla maglia sgualcita dalla partita di calcio interrotta dal temporale.
A un tratto il suo flusso di parole meccaniche e ansimate si blocca nel ghigno fiero di chi sta per dirti che è il primo della classe e invece: «Ero il migliore». A fare cosa, Innocent? «A uccidere. Non avevo bisogno del mitra, usavo il coltello. Quando catturavo i nemici non li facevo prigionieri, li sgozzavo subito. Il mio comandante lo apprezzava molto».
Cala il sole ed è subito coprifuoco a Goma, il baricentro del conflitto...
... che si trascina dal 1998 nell’est della Repubblica Democratica del Congo, con cinque milioni di morti e un milione di sfollati in nome del potere sulle ricchezze minerarie. Laurent Nkunda, il generale con gli occhialini da rockstar che a novembre aveva assediato Goma facendo tremare il presidente Kabila, tace dal 22 gennaio in una galera ruandese mentre le sue truppe sono entrate nell’esercito regolare conquistando l’impunità dai loro scempi. I ribelli di etnia hutu della Fdlr, fuggiaschi dal Ruanda dopo il genocidio, resistono nella giungla e nemmeno l’eccezionale alleanza d’armi fra Congo e Ruanda, nemici storici, ha potuto sterminarli. Le sigle Mai Mai, armate brancaleone filogovernative che abusano di riti esoterici, infestano ancora la regione del Kivu.
Per le strane leggi della notizia, i riflettori si sono spenti su Goma e dintorni eppure l’inferno ribolle identico. Da gennaio, 370mila nuovi sfollati ingrossano i campi profughi del Nord e Sud Kivu. I caschi blu della missione dell’Onu Monuc, impotenti di fronte alla maledizione di questa tenebra d’Africa, segnalano continui massacri.
Al centro “Don Bosco Ngangi”, alle porte di Goma, fisso le mani allungate di Innocent e i tagli in faccia di Mumbere, 14 anni, che ha combattuto al fianco di Nkunda e ripete come un automa «ho ammazzato militari, mai civili». Qui, in aprile si è dovuto allestire alla bell’e meglio una rimessa per affrontare l’emorragia dei soldatini di piombo, 1.200 quest’anno disarmati nel Nord Kivu dai caschi blu che li mandano al “Don Bosco” a studiare, giocare a pallone, placare incubi. Tornare a casa, forse, se un parente esiste e accetta di riprendersi un adolescente capace di sgozzare e stuprare, docile ed efficiente macchina da guerra.
Al centro ne sono arrivati 253 da gennaio. Il direttore don Mario Perez, venezuelano che ha il fegato di stare qui da dodici anni, intercala le risposte a lunghi silenzi: «Dimenticare... non so se possono. Ma quando riusciamo a riportarli in famiglia, a farli studiare, a insegnare loro un mestiere, occupano la mente e riorientano la loro vita. Sono ragazzi: recuperarli è possibile».
In questo istante, 3.500 dai 6 ai 17 anni giocano alla guerra vera nel Congo orientale. Dal 2004 la Monuc e l'Unicef ne hanno smobilitati 30 mila: 92 sono oggi coraggiosi testimoni alla Corte penale internazionale dell’Aja, nel processo al generale Thomas Lubanga che li reclutava a grappoli.
Il ribelle Nkunda li rastrellava direttamente a scuola, nelle zone di Masisi e Rutchuru, la sua roccaforte. Anche l’esercito governativo continua a schierarli in prima linea, pur avendo formalmente accettato i protocolli internazionali che lo vietano. Ma nel reame del caos un bambino è solo un corpo scattante da soggiogare con la paura e la droga, armandolo di mitra Smg.
Il centro d’accoglienza Cajed di Goma, sostenuto dall’Unicef, ha muri alti e filo spinato perché gli ex soldatini talvolta scappano per non fissare la loro immagine invecchiata allo specchio.
Solange ha 16 anni, sguardo inafferrabile, un filo di voce. Trascina la gonna colorata per il cortile, in braccio il neonato di un’educatrice come se giocare alla mamma fosse terapia ai giochi di morte. Abitava a nord, al confine con l’Ituri: è fuggita dalle torture dei genitori che l’accusavano di stregoneria (capita di frequente, ai bambini del Congo) e si è arruolata con i Mai Mai, per un anno. «Non so se ho ucciso» bisbiglia. «Quando spari non guardi dove vanno le pallottole».
Ci sono quelli truccati di durezza come Janvier, 17 anni, di cui tre nella foresta con gli hutu della Fdlr: «Ho tagliato braccia e gambe ai nemici» ride. E quelli allucinati come Joseph, splendidi occhi allungati, unghie tumefatte, dieci anni appena e cinque mesi da militare con la Fdlr, poi prigioniero e vivandiere delle truppe di Nkunda: «Sono stato io a mostrare al generale dove si nascondevano gli hutu, su a Rutchuru» racconta. «Volevo vendicarmi: erano stati loro a uccidere i miei genitori. Adesso se mi trovano mi ammazzano: sono un traditore».
Ecco perché tanti non torneranno mai al villaggio: rischiano un nuovo reclutamento o una violenta rappresaglia delle milizie, infastidite dalla perdita non tanto del bambino - in Congo l’unica cosa che abbonda è l’infanzia – quanto delle armi, sequestrate dalla Monuc.
Fa male ascoltare tremori, aggressività o ghiaccio nelle loro voci. Racconti di sangue contro natura. Ripetono “vita”, che in lingua swahili è l’opposto della vita. Significa guerra. Ed è un sollievo lo sguardo di Joseph che cambia, appena gli chiedo cosa farà da grande: «Il pasticciere, sono bravo. Anche per i colonnelli preparavo torte e bigné».
Danno un programma musicale, alla televisione sotto la tettoia di lamiera nel cortile del Cajed. I ragazzi mangiano in piedi, con le mani, piattoni di patate, carne e riso. E ballano. Joseph volteggia tenendo il piatto in equilibrio. Mi saluta agitando la manina. Da lontano è un bambino qualunque.
LA LORO VOCE A ROMA
Il 23 giugno, in Campidoglio a Roma, saranno loro a catalizzare l’attenzione: Grace, Kon e Ismail, ex ragazzi soldato nelle guerre d’Africa, oggi portavoce dei 250 mila ancora schierati nelle trincee di venti Paesi. Al convegno internazionale Bambini e giovani colpiti dai conflitti armati (organizzato da Unicef e Save the Children su iniziativa del ministero degli Esteri e del Comune di Roma), ci saranno rappresentanti dell’Onu e delle maggiori ong italiane. Per tentare, soprattutto, di trasformare chi è stato vittima in protagonista dei processi di pace. E a Goma, il centro “Don Bosco” dei salesiani ha bisogno di aiuto per continuare a garantire cibo e studio a centinaia di bambini in fuga dalla guerra.
Per sostenerli a distanza: tel. 800.123.456
Io donna, 20 giugno 2009
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