IL BUDDHA E I SUOI FIGLI



Cambogia, distretto di Prasat Bakong, a nord-est di Siem Reap e dell’Angkor Wat

Nella sua tunica color zafferano, il venerabile Mean Someth è sorridente come l’alto Buddha dorato alle sue spalle ma non altrettanto imperturbabile. Racconta del padre, chiamato dai khmer rossi a lavorare in una risaia-lager nel 1976, quando lui era un bambino di tre anni affamato e orfano di madre. Racconta che lo rivide nel ’79, caduto il regime di Pol Pot, e presto scomparve con le truppe del nuovo e fragile governo che al fianco dei vietnamiti combatteva gli ex dittatori, ancora forti del consenso popolare nelle province occidentali. «Quando mio padre tornò aveva capelli lunghi come una donna, la barba incolta, il corpo ridotto a scheletro. Ho pianto. Era vivo».
Anche adesso Someth sta per piangere. Guarda altrove e riesce a trattenersi. Vuole distogliere l’attenzione da sé. Se ha accennato alla sua storia, è solo per portare in primo piano le ferite dei contadini tra i quali è nato e cresciuto, nella sequenza di villaggi solcati da canali torbidi che comincia 40 chilometri a est di Siem Reap, appena oltre i templi di Angkor, e termina a nord lungo sentieri imprevedibili.


Bastano le coordinate geografiche di questa striscia di Cambogia per indovinarne il passato: da qui, oltre la sagoma lunga e bassa del monte Kulen, si snodano le traiettorie per Anlong Veng e Preah Vihear, ultime disperate cittadelle dei khmer rossi durante la guerra civile terminata solo nel 1998. Ad Anlong Veng morì Pol Pot, il 15 aprile di quell’anno. Nel suo letto, con «la coscienza pulita», come sottolineò nell’ultima intervista rilasciata a un reporter americano. La terra molle che da Siem Reap conduce alla sua tomba rigurgita ancora di mine anti-uomo.

Nel distretto di Prasat Bakong, dove è nato il venerabile Someth, i vecchi con una gamba sola setacciano l’orizzonte di un mondo fermo e marginale che trascolora nell’afa. Le case sono palafitte di legno sotto le quali pascolano polli anoressici e bambini scorticati dalla scabbia. Qualche pozzo per bere e lavarsi. Miriadi di insegne del Cambodian People Party, il partito di governo.
Chi è ricco – pochissimi – deve ringraziare il letame: valeva una fortuna in tempo di guerra, ci si barattavano anche gli ettari di campi quando la moneta era stata abolita. L’unico centro sanitario, solo un pronto soccorso, è lontano, a Kon Trang: nove tisici siedono sui tavolacci coperti dalle stuoie, qualcuno è mutilato dalle mine. Se però sono i bambini ad ammalarsi, bisogna trovare una moto per portarli all’Angkor Children’s Hospital di Siem Reap, il solo affidabile in zona per la pediatria. E le strade, qui, non sono che cumuli di terra rossa rialzati in mezzo alle risaie. Con i temporali estivi ogni immagine trasfigura: la risaia perde i confini, uno stagno appare davanti casa, il terreno si fa friabile e accessibile solo ai carri piatti trainati dai buoi.


Da tempo Mean Someth si è trasferito in città, a Siem Reap, accanto alla pagoda Enkosa dove ha finito gli studi e dove oggi fa da guida spirituale – in fondo anche da padre – a un giovane monaco, un orfano delle sue campagne: Rum Duom, 15 anni, smunto, timoroso e minuto come un bimbo di sei. Sta qui vicino anche l’ufficio dell’organizzazione umanitaria che Someth ha fondato nel 2002: Hrnd, Human Resource and Natural Development. La sola vita contemplativa non si addiceva al monaco. Benedire le case fangose non era abbastanza, e neppure intercedere presso gli spiriti dei defunti. Lui fremeva per agire. Uno scatto singolare per un cambogiano educato alla mite accettazione dell’esistenza e del dolore che, secondo il Buddha, non sono che apparenza.

Someth se lo carica addosso, il dolore, e spiega così la sua filosofia: «I poveri si sentono vittime del karma, di un destino di sofferenza per le colpe delle vite precedenti. Ma il ciclo delle reincarnazioni si può invertire, con un cuore pulito e un comportamento corretto, lottando per migliorare le proprie vite e per lo sviluppo della comunità».
Il monaco mi ha invitata a condividere la quotidianità dei suoi contadini. A rinunciare ai servizi igienici e all’acqua corrente che qui non esistono nemmeno nelle case pacchianamente piastrellate dei capivillaggio.


Mi ha chiesto di assaporare fino in fondo l’amarezza immobile del tempo a Tlok Kombot, Kok Reusey, Takoy, Promkot, Trach, Krapeu, Popel e Snarsnag Kream, gli otto villaggi in cui Someth gira come un capocantiere tentando di istruire la gente a usare tecniche agricole meno primitive e a piantare cavoli, pomodori, banani e alberi di mango oltre al riso. A costruire dighe in cemento e non in fango secco per non restare in balia del cielo e conservare acqua per la stagione secca. A far fruttare i prestiti della sua organizzazione – 60 o 70 euro l’anno, senza interessi – riparando biciclette, tagliando barba e capelli, allestendo piccole drogherie a cielo aperto, comprando una mucca o un maiale.
C’è da demolire la menzogna già passata di bocca in bocca secondo cui la salvezza, e i soldi, piovano solo emigrando in Thailandia. Ke Lab, 45 anni, aveva sborsato ai trafficanti l’equivalente di 50 euro per entrare in Thailandia e lavorare un anno, da schiavo, in una fattoria: gli spiccioli messi da parte sono finiti nelle tasche della polizia di frontiera, mentre Lab cercava di portarli alla famiglia.

Truffe della miseria e dell’ignoranza. Ignoranza fonte di ogni male, secondo il Buddha. Ecco perché Someth convince i poveri a mandare i figli a scuola, a considerarli giovani persone in crescita, non solo braccia per i campi. «Abbiamo dovuto cominciare da capo, come se questa gente fosse stata dormiente fino a ieri», dice il monaco mentre mi guarda mangiare. Lui la sera digiuna, sempre. «In questi otto villaggi abitano quasi 6000 persone. L’80% vive sotto la soglia di povertà, con meno di un dollaro al giorno. 78 bambini su mille muoiono appena nati, 125 prima di compiere cinque anni. Chi possiede solo la terra per costruirci la capanna, va a lavorare per mesi nelle risaie in collina e torna con ogni genere di malattie. È un tessuto economico e sociale tutto da ricostruire. Fino al 1998 qui si sparava ogni giorno, e non ci interessava chi fossero i buoni e chi i cattivi. I militari del governo si accampavano nelle nostre case e nelle pagode, togliendoci il cibo di bocca. Ci accusavano di sostenere Pol Pot e ci uccidevano. Ho visto i soldati vietnamiti tagliare mani. Uomini e bambini saltare sulle mine. Era l’inferno».


Il dato che più sconvolge, in quest’area che si raggiunge passando accanto al complesso sacro dell’Angkor Wat, orgoglio e culla d’arte e cultura, è il tasso di analfabetismo. Le statistiche ufficiali parlano del 35% della popolazione che non sa leggere né scrivere, ma Mean Someth, battendo a tappeto le case di questi villaggi dimenticati, assicura che qui «il 95% della gente è totalmente analfabeta». Il Buddha avrebbe scosso il capo. Pol Pot ne sarebbe andato fiero, nel suo progetto di una Cambogia agricola e illetterata, redenta nella purezza dell’ignoranza: durante il regime le scuole venivano chiuse, molti insegnanti uccisi. Ogni forma di spiritualità veniva repressa: erano 65 mila i monaci buddhisti in Cambogia, all’inizio del 1975; dopo quattro anni solo 3000 sopravvivevano.

«I Buddha sono nati dalla cazzuola di un muratore», recitava uno slogan dell’Angkar comunista, mentre le pagode erano saccheggiate, demolite, usate come munty santebal, “uffici di sicurezza interna”: camere di tortura per gli oppositori, prima di farli sparire nelle fosse comuni intorno. Una beffa crudele, trasformare templi di serenità interiore in mattatoi d’odio, ma nulla che il Buddha non avesse presagito: «La gente della foresta seminerà panico in tutto il paese», rivelò al discepolo Ananda, «il sangue scorrerà in abbondanza, formando un fiume che arriverà fino al ventre dell’elefante. Tutta la mia religione sprofonderà nell’oblio e nell’ignoranza».
«È troppo facile incolpare solo i khmer rossi», ci tiene a dire Someth tradendo sdegno. «Stati Uniti, Russia, Cina e Vietnam hanno gravi responsabilità nella nostra storia. Il Tribunale internazionale che giudica gli uomini di Pol Pot, o quel che ne resta, non deve ignorarlo. Noi non possiamo accettare che il nostro popolo abbia lacerato se stesso spontaneamente, senza influenze esterne. È insopportabile».

In Cambogia la vita spirituale è rifiorita presto, già dagli anni Ottanta, e oggi si contano quasi 60 mila monaci nel paese. Giovani, alcuni bambini. Come quelli che incontro nella pagoda di Trach, un placido complesso di costruzioni in legno bucate dai proiettili e decorate dall’arancio delle tuniche stese ad asciugare.
Appena oltre il sentiero in salita, le piante divorano la roccia scura del Chau Srei Vibol, un tempio dell’XI secolo spettrale e mutilato dalla guerra civile. Someth è diventato monaco in questa pagoda, a 16 anni. Oggi i giovani venerabili sono una trentina: ragazzi di campagna che fino a ieri stavano curvi sulla risaia, impossibilitati a raggiungere le uniche due scuole della zona. Un giorno hanno deciso di ribellarsi al karma consacrandosi al dharma, l’insegnamento del Buddha.

Alcuni sono certi che indosseranno la tunica per sempre. Altri ammettono, dolcemente, che magari un giorno si sposeranno ma nel frattempo studiano per diventare uomini retti e saggi. Kath Bin, 23 anni, sogna di aprire un’officina meccanica, terminati gli studi in pagoda. San Sen, undici anni e una buffa smorfia da monello, vuole diventare infermiere per aiutare la sua gente. Roeun Ror, sedicenne lungo e sottile con lineamenti d’angelo, non desidera nient’altro che essere un monaco colto e rispettato: «Ho deciso di venire alla pagoda di nascosto dei miei genitori», racconta piano. «Loro volevano che lavorassi nei campi e all’inizio non mi hanno parlato. Adesso che so leggere, scrivere e recitare il dharma sono fieri di me».
È un luogo silenzioso e rassicurante, la pagoda di Trach. Soprattutto nel primo pomeriggio quando i giovani monaci riposano avvolti nelle amache amaranto, dopo aver pranzato con il riso che la gente del villaggio regala ai venerabili per ingraziarsi la sorte. Poco più in là, sotto una tenda verde, abitano gli sminatori del Cmac, il Cambodian Mine Action Center: ci vorranno altri novant’anni per bonificare il distretto dai rottami assassini del passato. Ma la pagoda è un’isola, un punto illuminato di misticismo e progettualità.


Nella sua scuola i monaci seguono lezioni di dharma e pali (la lingua liturgica del buddhismo theravada o hinayana, il ramo più antico, quello dominante in Cambogia). Imparano la lingua khmer, la matematica e l’inglese grazie a monaci poco più adulti, insegnanti volontari formati a Siem Reap da dove arrivano in tuk-tuk, il carretto trainato da una moto, a istruire anche gruppi di bambini dei villaggi.
Moom, 26 anni, tiene uno sgualcito dizionario khmer-english sotto il braccio e ripete all’infinito le frasi scritte in blu sulla lavagna: «What’s your name? Where are you from?». «Se non sai l’inglese», si volta, «non troverai mai un buon lavoro in Cambogia. Qui sorgono tanti templi antichi: quando costruiranno la strada da Siem Reap e restaureranno il Chau Srei Vibol, arriveranno i turisti. Gli adulti di domani dovranno essere pronti a sfruttare la nuova risorsa economica».
È anche l’ambizione di Someth, la più preziosa delle sue tante idee: aprire un centro dove i giovani di questi villaggi afflitti producano oggetti d’artigianato e di sartoria, imparino l’inglese e le danze khmer, e magari gestiscano una guesthouse per i visitatori. «Abbiamo un terreno pronto, mancano solo i soldi per costruire gli edifici e pagare gli insegnanti».

La cronica penuria di insegnanti è tuttora il maggiore ostacolo al diffondersi dell’istruzione, almeno quella primaria, nella campagne cambogiane. Gli stipendi statali sono scoraggianti, meno di 20 euro al mese, e per sopravvivere i maestri finiscono per pretendere una sorta di elemosina dagli alunni: chi non può permettersi l’obolo smette di andare a scuola.
«È questo che ci paralizza: il governo che non fa nulla», lamenta Someth. «Non investe nell’istruzione, non costruisce strade né sistemi d’irrigazione. La corruzione dilaga, fra i politici, e la gente lo sa. È disillusa. Si affida solo alle proprie forze. E a stento dà credito anche a organizzazioni come la nostra perché pensa che nulla, in Cambogia, possa davvero cambiare. La guerra civile è durata troppo, tagliando fuori quest’area da ogni processo di sviluppo».
Nel distretto di Prasat Bakong, per sostenere i bambini che desiderano imparare qualcosa in più, al di là del ciclo del riso, Someth è riuscito a persuadere i genitori dell’importanza di mandarli a scuola, piuttosto che impiegarli nei campi. Taing Sophea, 10 anni, quattro fratellini luridi e coi vestiti laceri, un padre che non conta i cadaveri calpestati quando era un soldato adolescente e deperito, può raggiungere la scuola pubblica solo da quando la zia gli ha prestato una bicicletta. Durante i monsoni è un tragitto melmoso e interminabile, riferisce serio, «qualche volta rinuncio e torno indietro».
La gente del villaggio racconta che Sophea è il primo della sua classe. Ed è il più povero. «Riesce a leggere i giornali», aggiunge il padre scuotendosi dal suo torpore.

Snarsnag Kream è il villaggio più isolato, e 240 bambini aspettano impazienti che qualcuno porti la scuola da loro. L’edificio esiste da due anni, costruito con lo sforzo unanime della comunità. È senza vetri alle finestre ma spazioso, con banchi recuperati chissà dove, qualche lavagna, addirittura due bagni per maschi e femmine. Mancano solo i maestri. Basterebbero tre insegnanti da Siem Reap, che si fermassero qui cinque giorni a settimana ospiti delle famiglia. Sono queste piccole cose, nell’anno zero dei villaggi, a poter invertire il senso dell’eterno rinascere.


Yan Sokla lo ha compreso, a 8 anni. Ben pettinata e composta sui banchi dell’aula fantasma, sa già leggere e scrivere: dalle scuole lontane ha preso in prestito i libri di testo e appena finisce di bollire riso per la famiglia e di nutrire le anatre, si porta avanti per quando avrà una classe tutta sua. Non parla il dialetto dei contadini, ma un linguaggio più ricercato: «L’ho appreso dai libri», dice. Da grande vuole fare l’insegnante, nel suo villaggio: «Quasi nessuno sa leggere e scrivere, potrò essere d’aiuto».
E vorrei tornare fra vent’anni, per vedere quale forma avranno preso i sogni di Sokla. Vent’anni è un tempo ragionevole per resuscitare la Cambogia? Il vociare dei bambini dentro le aule spoglie, con enormi Buddha tracciati sui muri da gessetti neri e inesperti, è già identico a quello che rimbomba in ogni scuola, in ogni parte del mondo.

Commenti

  1. Bello!
    Scusa ma dove hai trovato il tempo per scriverlo?

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  2. Lo avevo scritto durante il mio precedente viaggio in Cambogia, e pubblicato nel libro "La ruota che gira" (ed. Contrasto). Questa volta non sono passata da Siem Reap, ma ho voluto pubblicare la storia del monaco Someth perché mi piace l'idea che on-line, potenzialmente, la possano conoscere tutti.

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