QUANDO ARRIVA LA TEMPESTA
Cambogia, lago Tonlé Sap, a est di Pursat
Ka Chreb è una sagoma scura contro il rosa dell’aurora, la camicetta nera strappata su una manica. Appare lenta sulla canoa con la figlia di un anno incastonata fra le gambe, bambola paffuta e imbronciata.
La domenica Chreb fa colazione con il porridge di pesce e cipolle crude cucinato dalle vietnamite che trascinano in barca i pentoloni, vivandiere inconfondibili con i loro copricapi a cono. 200 riel per la zuppa, meno di 5 centesimi di euro. 100 riel per una frittella. 500, o 1000 secondo l’umore, per un bicchiere di caffè intenso e pastoso addolcito con latte condensato.
Chreb ha avuto una nottataccia, glielo si legge sul viso da trentacinquenne già vecchia. La pioggia è caduta fragorosa e la sua casa non è rivestita di bambù sul fondo, costerebbe troppo, così l’acqua marrone del lago si fa subito largo tra le assi sconnesse del pavimento costringendo la famiglia a veglie impaurite. Già ieri pomeriggio, quando sono andata a trovare Chreb per conoscere i suoi bellissimi quattro figli, eravamo forzati al centro della zattera perché non s’inclinasse su un fianco.
Produce un incanto ingannevole, il villaggio galleggiante di Anlong Riang nella zona bassa del Tonlé Sap, il più ampio bacino d’acqua dolce del Sudest asiatico gonfiato dal Mekong che risale durante le piogge. Uno spazio dal silenzio fatato, dai colori tenui, dai volti scuri e affascinanti. Ma è tutto fuorché una cartolina: i 500 abitanti vivono su zattere a forma di casa, con il tetto a spioventi di lamiera o foglie di palma, gli incensi sull’altarino del Buddha, pagine di riviste appese alle pareti e corti drappi fucsia sfilacciati che imitano porte dividendo la parte principale della casa – dove si mangia, si dorme, si procrea – dalla cucina. Ci si muove su barche e canoe, non si cammina mai. Qualcuno ha quattro maiali in recinti legati alla casa con una corda, e piattaforme improvvisate su cui s’azzuffano cani e galline.
La vecchia Seong Ve ha dipinto d’azzurro le sue assi marce per sentirsi una signora. Leang Lim e sua madre Nork, vedova e malata, si accontentano di una barchetta di due metri per tre riempita di piatti dipinti a fiori rossi e sacchi di riso regalati per misericordia.
Ly Pheap cucina deliziosi pesci fritti e possiede un televisore con il lettore dvd per il karaoke, alimentati a batteria: certe sere suo marito invita i vicini ad ascoltare i vecchi boogie-boogie di Ros Serey Sothea, vittima dei khmer rossi e della loro sistematica cancellazione dell’arte.
Si vive di pesca ad Anlong Riang, in un’economia di pura sussistenza. E così negli altri 12 villaggi galleggianti sparsi dove il lago si restringe e diventa fiume: un’ora di barca dal porticciolo squallido di Kampong Luong sovrastato dal rudere di una grande nave. Ma sono altre centinaia gli insediamenti al largo del Tonlé Sap: rifugi per chi non può comprare né affittare uno straccio di terra.
«Anlong Riang si è formato negli anni Cinquanta», riferisce Seong Lay, il capovillaggio, sigaretta in bocca ed eloquio solenne. «Quasi tutti siamo nati qui, sull’acqua. Sotto Pol Pot tanti furono evacuati per lavorare nelle risaie a nord, e quelli rimasti erano costretti a consegnare il pescato alla cooperativa che controllava la zona in cambio di una scodella di riso al giorno. Avevamo i crampi allo stomaco. Un gruppo tentò di opporsi, e io con loro: allora i khmer rossi organizzarono una festa servendo noodle, spaghetti di riso, un miraggio in quella fame assoluta. I noodle erano avvelenati. Io ho ricevuto una soffiata. Gli altri no».
Oggi, tra questi fragili ripari dalla mappatura mutevole come le correnti, la maggior parte delle famiglie vive con meno di mezzo dollaro al giorno e nessun funzionario governativo si inoltra, nemmeno per esigere le tasse. Cittadini fantasma, che raramente si registrano alla nascita e infatti pochi conoscono il proprio compleanno.
Non esiste, la gente di Anlong Riang, e per loro non esiste nulla. Nessun depuratore pubblico per l’acqua oleosa del lago usata per lavarsi, per bere, per cucinare. Nessuna legge che protegga le loro riserve di pesca dalle razzie di chiunque né dalle sostanze inquinanti che iniziano a soffocare il Tonlé Sap. Ci si ammala di malaria, febbre dengue, dissenteria, tubercolosi, e per curarsi bisogna raggiungere Kampong Luong: traversata suicida durante i monsoni estivi e farraginosa nelle secche invernali.
Nessun insegnante accetta di trasferirsi nei villaggi galleggianti per fare scuola ai bambini – vocianti, nudi nell’acqua, sveltissimi con i remi, i capelli chiari per carenza di vitamine. Solo un terzo degli abitanti di quest’area del lago sa a malapena leggere e scrivere, e sembra una coda fuori tempo della grande ossessione dell’Angkar, l’”organizzazione” di Pol Pot “madre e padre di tutti i vostri figli”, inneggiante a una Cambogia che avesse “la vanga come penna, la risaia come quaderno”.
La Ong ActionAid è arrivata qui nel 2005, sostenendo l’impegno di un’organizzazione con base a Kampong Luong che ha cominciato distribuendo riso ai più poveri. Ma il progetto che sta allargando gli orizzonti riguarda l’istruzione: ActionAid ha aperto una scuola ad Anlong Riang e incoraggiato le famiglie a costruirne un’altra nel vicino O’Akol, fornendo il materiale per studiare e incontrando i genitori per convincerli a mandare i figli a scuola, se vogliono per loro un avvenire diverso. Per ora sono stati reclutati due insegnanti dalla terra ferma, giovani ed entusiasti, allettati da uno stipendio più serio dell’assurda paga statale da 20 euro al mese. Le scuole funzionano dall’inizio del 2006: piccole aule galleggianti, ovvio, dove si fa lezione tre volte al giorno per i bambini di sei villaggi distribuiti per orario. Centinaia di alunni dai sei ai quindici anni stretti dietro banconi già perseguitati dall’umidità, ma almeno con un luogo soltanto loro per rimettere in moto i pensieri e dare un calcio alla monotonia senza futuro delle reti gettate in acqua all’alba e ritirate a sera.
Quando termineranno la scuola primaria, si organizzeranno trasporti collettivi per Kampong Luong perché possano iscriversi alla scuola secondaria.
Mancano anni e tutti già progettano di fare gli insegnanti, da grandi: l’unico mestiere che conoscono, da quando frequentano la scuola, che non sia faticoso e frustrante come quello dei padri. Tutti si vedono sulla terra ferma, approdo mitico e risolutivo. Eppure solo Thon Nhaev, 12 anni e una passione per la matematica, racconta di essere stato a Pursat, la cittadina più vicina, disadorna ma movimentata dal traffico sulla strada asfaltata che collega Phnom Penh a Battambang. Per gli altri, terra è il mercato di Kampong Luong dove si vende il raro pesce in eccesso. O il lembo di boscaglia che emerge dietro le baracche di O’Akol nella stagione secca. Strisce rosse, fradice e spelacchiate, ma tanto basta ad accendere desideri e a non tollerare più la prigionia del lago.
«L’acqua rovina tutto, anche i libri», dice Chhay Kakada, 13 anni, un padre scomparso nel nulla dopo la sua nascita. «Se vado a scuola potrò trovare un lavoro sulla terra: là sì che non avrei mai paura». Di cosa hai paura, qui? «Della tempesta. Quando arriva la tempesta mi viene voglia di scappare. Ma è impossibile. Per scappare dalla tempesta bisogna prendere la barca e affrontare la tempesta».
«Una sera la mia canoa si è ribaltata e sono caduto in acqua», scandisce Thon Nhaev. «Ero solo. Avevo paura. Ho nuotato fino a un albero che usciva dall’acqua e mi ci sono aggrappato finché la tempesta è passata. Quante ore? Fino all’alba».
«Sono fortunati questi bambini, a poter studiare», declama Pum Soy, 70 anni, fra i pochissimi che sono arrivati alla vecchiaia. Scheletrica e rasata, fa il conto delle sue perdite: «Avevo otto figli, una volta. Dopo Pol Pot me ne sono rimasti due. Gli altri erano stati mandati a scavare una fogna a Pursat, per il regime. A lavoro finito li hanno fucilati gettandoceli dentro. Non avevano fatto niente, ma quelli volevano eliminare chi era andato a scuola per condannare la Cambogia all’ignoranza».
Le sorelle Em, Sokhoeun e Doeum, estraggono dai loro sorrisi un’altra storia paralizzante. Bambine negli anni Settanta, sottratte ai genitori dai khmer rossi e portate a raccogliere letame nelle campagne. Doeum ha tentato di raggiungere la madre nascondendosi nel bagagliaio di un’auto ed è stata scoperta. L’avrebbero uccisa, ma in quel momento sono arrivate le truppe vietnamite. Le sorelle si sono trovate libere e sole, traballanti come la casa che hanno deciso di costruire qui, sull’acqua, approdo di chi non ha niente.
Sokhoeun, raffinata e solare, con una figlia adolescente bella come un’attrice, sussurra piano: «È vero, i nostri figli sono fortunati». Non sa che per loro, i bambini galleggianti che ridono rincorrendosi con le canoe e tuffandosi all’imbrunire – uno degli spettacoli più stranamente rasserenanti in questa periferia di miseria che nessuno, mai, ostenta – la fortuna abita altrove.
«Quando arriva la tempesta», ripete come un ritornello la piccola Leang Lim, rientrata da una pesca deludente, «sulla terra ferma mi basterebbe chiudere la finestra per lasciar fuori la pioggia e il suo rumore».
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