RAGAZZA NULLA
Liliana Segre non è mai più tornata ad Auschwitz, a vedere quel che resta. Il 27 gennaio del '45 lei non era più lì, all'arrivo dell'Armata rossa. Aveva già iniziato la "marcia della morte". Ed è sopravvissuta.
Auschwitz: nome sconosciuto, località artificiale creata dai nostri aguzzini solo pochi anni prima che vi arrivassimo. Era una cittadina della Polonia, non lontana da Cracovia, che non aveva niente di speciale per essere ricordata e in seguito divenne il cimitero più grande del mondo.
Il 6 febbraio del 1944 il nostro treno si fermò ad Auschwitz, e al silenzio che aveva paralizzato l’ultima parte del nostro viaggio si sovrappose il rumore osceno degli assassini che aprivano le porte dei vagoni.
Era la stazione d’arrivo degli ebrei, la Judenrampe, a meno di un chilometro dal lager di Auschwitz II-Birkenau. La rampa era stata preparata da tempo per i treni che confluivano là da tutta l’Europa occupata dai nazisti, dai quali ogni giorno si riversavano centinaia di persone provenienti dalla Francia, dalla Cecoslovacchia, dall’Italia, dalla Polonia, dalla Germania, dalla Grecia, dall’Olanda, dal Belgio. Una babele di linguaggi invadeva i binari morti: i treni scaricavano quell’umanità e tornavano indietro vuoti.
Furono i prigionieri vestiti a righe a tirarci giù dal convoglio. La visione che si aprì davanti ai nostri occhi era tremenda: una spianata di neve nell’inverno polacco, le SS con i loro cani al guinzaglio, e poi fischi, latrati, comandi.
Io non capivo nulla.
Le SS obbligavano noi prigionieri a radunare le nostre valigie, a dividerci, a metterci in fila. Tutto doveva avvenire in modo preciso, ordinato, svelto. E ci tranquillizzavano con quei loro sguardi di ghiaccio e un sorrisetto stampato in faccia: “Calmi: state tutti calmi. Noi vogliamo solo registrarvi. Stasera le famiglie saranno di nuovo riunite e tutti insieme andrete in un campo di lavoro”.
Lo volevamo credere.
Quelli che sapevano il tedesco ci traducevano queste frasi e noi le volevamo credere pazzamente. Divisero gli uomini a sinistra e le donne a destra, facendo mucchi delle nostre valigie.
Fui obbligata a intrupparmi nel gruppo delle donne, e mio papà era là, oltre quella spianata, con gli altri uomini. Lasciai per sempre la sua mano: non lo avrei mai più rivisto ma allora non potevo saperlo.
Continuavamo a fissarci da lontano e io, con gli ultimi sguardi, lottando per non piangere, gli facevo dei sorrisi, gli mandavo dei ciao...
Entrai nel campo insieme ad altre ragazze scelte per la vita e non per il gas: ci fu risparmiata la morte istantanea senza un criterio preciso. Semplicemente “Tu sì, tu no”. E io mi ritrovai viva senza merito alcuno, forse perché ero alta e dimostravo più dei miei tredici anni, perché fino a tredici anni i bambini andavano direttamente al gas.
Eravamo in 605 sul convoglio che raggiunse Auschwitz il 6 febbraio del 1944. Per oltre la metà donne.
Fummo scelti per la vita in 128: 31 donne e 97 uomini. Gli altri si allontanarono sui camion e ai nostri occhi disorientati erano loro i fortunati, che non erano costretti a camminare in mezzo a quel freddo tremendo, dopo quel viaggio massacrante, e chissà verso dove.
Sul camion vidi salire anche violetta e la sua mamma, che mi erano state così vicine nei giorni del carcere di Varese. Violetta era bellissima, lei e la sua mamma andavano via sul camion, abbracciate, e io avrei tanto voluto essere con loro. Come potevo immaginare la verità?
Con altre trenta ragazze sconosciute, alle quali mi univa solo la lingua, entrai così nel grande lager femminile di Auschwitz-Birkenau, il luogo delle strutture di morte...
Era una situazione surreale, uno scenario apocalittico: un campo enorme che conteneva sessantamila donne, baracche grigie a perdita d’occhio, triplo filo spinato elettrificato, prigioniere denutrite vestite a righe che parlavano in tutte le lingue, sentinelle con la mitragliatrice puntata verso il campo, donne in punizione, donne inginocchiate a terra, donne-scheletero che ci guardavano mute, che portavano bidoni con la zuppa, trascinavano pietre, venivano picchiate dalle sorveglianti.
“Dove siamo? Che posto è questo?”. Ci sentivamo impazzire...
Ci spinsero nella prima baracca dove ci denudarono completamente portandoci via tutto della nostra vita precedente, perfino il fazzoletto...
Continuava la litania delle ragazze francesi: “Non siamo più nessuno, siamo schiave, ragazze-nulla. Chiunque ha potere di vita e di morte su di noi. Imparate subito il tedesco, ubbidite ciecamente, non guardate in faccia le guardie perché è proibito. Cercate di vivere, di sopravvivere. Sarete picchiate per ogni minima cosa, mangiate tutto quello che vi daranno, anche se sarà orribile mangiatelo perché l’alimentazione qui è talmente povera di calorie che non vi conviene lasciarne nemmeno una briciola”
Le guardavamo, le ascoltavamo, convinte che fossero pazze. Ecco cos’è Auschwitz: uno sterminato manicomio!
E poi venne la notte.
Guardai fuori dalla finestra della mia baracca e osservai il fumo della ciminiera.
Ormai sapevo cos’era...
Dopo qualche giorno nessuna pianse più.
Dal mio Sopravvissuta ad Auschwitz, edizioni Paoline.
La mamma di mio padre aveva come cognome Zuccalà (Magari ce ne saranno tantissimi...) mio padre di cognome faceva Iovino, originari di Caivano (NA) ... ti dice qualcosa...???
RispondiEliminaQuello che ho saputo di mio nonno, mai conosciuto, e che era professore e poeta, morto per la sua fede di antifascista!
Non credo ci sia parentela, le mie origini stanno in altri luoghi.
RispondiEliminaComunque grazie per avermi letta!