BEIRUT, LA VIE EN ROSE

foto di Gigi Roccati


May ha convinto tutte le fazioni a correre contro la guerra. Zena, la figlia, racconta con opere d’arte rigorosamente fucsia e articoli sul Guardian, le sue “cronache dall’inferno”. Per trovare una via femminile alla pace

L'anno zero di Zena El Khalil è il 2006: in luglio la sua Beirut si sgretola sotto i raid israeliani e lei sfoga in un blog le paure di un’artista trentenne che non sa se domani sarà viva. Le sue cronache dall’inferno fanno il giro del mondo, The Guardian le pubblica, Zena le stravolge e trasforma in un libro: Beirut, I Love You arriva in Italia il 29 aprile per Donzelli.
L’anno zero di May El Khalil, invece, è il 2001: sta correndo all’alba, un furgone la schianta contro un muro e per un soffio non le strappa la vita. Due anni in ospedale, 36 operazioni: lei non è più la ricca signora libanese che nel weekend fa shopping a Roma. Vuole inventarsi qualcosa di importante, che profumi di pace e unità...
... senza macchiarsi di politica: la Beirut Marathon, il più grande evento sportivo del Medio Oriente, l’unico in grado di unire le 18 religioni del Libano, è creatura di May e a novembre taglierà il nastro dell’ottava edizione.
Sono madre e figlia, May e Zena, 54 e 34 anni. La prima misurata, bellezza perfetta; la seconda con gli anfibi fucsia e la passione per le chiese in rovina, che sogna di riempire con le sue installazioni sgargianti. Personaggi e interpreti di una Beirut schizofrenica, con i nuovi grattacieli che svettano accanto alle case crivellate di proiettili. Città che nonostante anni di guerre, «omicidi di massa e inferno quotidiano» scrive Zena «ha mantenuto bellezza e dignità. E noi vogliamo celebrarla».


Zena ha scritto un libro drammatico e ironico, dove i traumi intimi (la perdita della verginità, la morte dell’amica Maya, un divorzio precoce che imbarazza la famiglia, di confessione drusa e tradizioni solide) detonano nella frenesia della Beirut post-bellica: «Qui ogni cosa è accelerata, moltiplicata per cento» spiega nel suo studio in cima a un palazzo in West Beirut, zona musulmana, con vetrata a picco sul mare. «Beviamo, balliamo: una cura contro la guerra che può tornare domani. Quando hai visto un grattacielo sbriciolarsi in un attimo, pensi che anche tu potresti cessare di colpo di esistere. E allora siamo passionali, materialisti, ossessionati dall’aspetto fisico e dalla chirurgia plastica». E dal sesso: «Ne parliamo, flirtare è un passatempo nazionale. Ma non ne scriviamo, ecco perché non sono pronta a tradurre il mio libro in arabo: non voglio sentirmi esiliata a casa mia».
Zena l’ha scelta, Beirut: nata a Londra, cresciuta in Nigeria dove il padre possiede un’industria, nel ’94 torna in Libano: «Mi spingeva una forza invisibile. Beirut era devastante ed esilarante, bella e cruda. La guerra civile, finita da 4 anni, aveva dissolto ogni regola: io avevo 18 anni e mi pareva di volare».
Prima che scrittrice, lei è artista: i suoi maxi collage abbondano di fucsia, pizzi, cucchiai, kalashnikov giocattolo e immagini pop. Tutto fissato, precariamente, con puntine: «In Libano nulla è permanente, neanche la memoria del passato, che ogni fazione riscrive come vuole: così nei miei quadri gli elementi si possono smontare e ricomporre».
Le sue ultime opere, che esporrà a Beirut in giugno, riprendono un volantino caduto da un aereo israeliano nel 2006: il capo di Hamas, il presidente siriano e quello iraniano evocano con un flauto il leader di Hezbollah, che si materializza da un’ampolla. «La mia non è arte politica, ma il mio Paese è altamente politicizzato e come artista non posso che reagire al mio tempo».
Poi ti porta nel suo luogo del cuore: il lungomare della Corniche, affollato di donne velate e ragazze in tuta attillata che fanno jogging, famiglie in bicicletta, coppie mano nella mano, vecchi che giocano a backgammon. «È l’unico posto, a Beirut, dove siamo tutti uguali».



May ha preparato dall’ospedale la prima maratona di Beirut: era il 10 ottobre 2003, seimila persone di 48 nazionalità, adunata storica per il Libano. «Avevo partecipato a maratone in tutto il mondo, prima dell’incidente, ma qui era uno sport sconosciuto. Ho girato tutti i villaggi, hai presente le campagne presidenziali negli Stati Uniti?» ride. «Ho incontrato studenti, comunità, e ho coinvolto il presidente, che allora era Lahoud. L’idea era unire il Libano in un evento sportivo che travalicasse le divisioni politiche e religiose».
Anche per May, Beirut era un’impellenza, dopo gli anni in Nigeria. La sua Beirut Marathon è oggi una delle maggiori organizzazioni non profit del Paese, sostenuta dal ministero dello Sport. E l’annuale corsa di 42 chilometri per la città è sempre una festa. «Nel 2005 c’erano 60mila persone: era il periodo dell’assassinio del primo ministro Rafiq al-Hariri, delle autobombe, della morte che tornava prepotente. Il linguaggio universale della maratona era ciò che la gente voleva».
Nel 2009 May ha fatto gareggiare il primo ministro Saad Hariri e parlamentari di ogni partito. Lei non può più correre, ma la sua è una rivincita sul destino: la Cnn ha dedicato uno speciale a questa signora incantevole che ama, sopra ogni cosa, i quattro figli, le orchidee. E Beirut, «che cerca di far credere al mondo di essere tornata la Svizzera del Medio Oriente. Si costruisce, si gira con belle auto, ci si veste eleganti. Ma è presto. Siamo abituati a tentare di sopravvivere, dopo la guerra civile, gli attentati del 2005, le bombe del 2006 e gli ultimi scontri nel 2008. È ora di cominciare a vivere».

Da Io donna, 17 aprile 2010
E anche sul Corriere.it
E il trailer del libro Beirut, I Love You (Donzelli)

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