IO GUARDO IL MALE NEGLI OCCHI

Dal genocidio del Ruanda ai massacri dei soldati-bambini in Congo. Silvana Arbia, giudice del tribunale internazionale dell’Aja, si occupa di crimini orrendi. E confessa: “Lo sguardo dei sopravvissuti mi inchioda. E mi dà la forza di andare avanti”


foto di Chris De Bode

"Sì, me lo domando quasi ogni mattina: perché non smetto? Allora incontro le vittime: solo guardando loro  negli occhi ritrovo un senso, una motivazione». Lo ammette, Silvana Arbia: c’è una parte davvero difficile del lavoro, ed è la necessaria fatica di ricacciare indietro l’emozione, il disgusto a volte, restando magistrato  neutrale. Perché, precisa, «anche Jean-Pierre Bemba è un presunto innocente, una persona con dei diritti,  finché non arriva la sentenza».

E sta parlando dell’ex vicepresidente congolese accusato di massacri, stupri di massa, persino cannibalismo e violenza su una bimba di quattro anni davanti ai genitori. Uno dei quattro criminali sotto processo alla Corte  penale internazionale dell’Aja dove Silvana Arbia - 57 anni, lucana cresciuta in Veneto, prima alla Corte  d’appello di Milano e poi in Tanzania, procuratore al Tribunale speciale per il genocidio in Ruanda - ricopre  uno dei ruoli al vertice (è l’unica donna), quello di Registrar. Potremmo tradurlo con “capo della cancelleria”, ma non renderebbe l’idea: lei protegge vittime e testimoni, decide sulle condizioni di detenzione, organizza l’assistenza legale, si occupa della cooperazione degli Stati con questa giustizia internazionale che non sempre funziona come dovrebbe.
La incontriamo poco dopo l'apertura del processo a Bemba, che lascerà un segno per i reati raccapriccianti di cui è accusato.

Come ci si sente di fronte a uomini che sembrano l’incarnazione del male?
Può essere stancante, scoraggiante. Le frustrazioni sono tante, a partire dal fatto che spesso gli Stati non  collaborano alla giustizia internazionale. Così capita, a fine giornata, di chiedersi: ma perché continuo?

E che risposta si dà?
Tengo sulla scrivania la foto di una bambina di un villaggio del Ruanda, una sopravvissuta al genocidio, che mi stringeva la mano e non me la lasciava più. Eravamo accanto alle macerie della sua scuola: lei diceva che il  suo più grande desiderio era tornare a studiare. La sua foto basta a ricordarmi che qualcuno, forse, ha  bisogno che io continui.

Un altro processo in corso all’Aja è quello a Thomas Lubanga Dyilo, anche lui congolese, il primo arrestato  su mandato della Corte con l’accusa di aver reclutato bambini soldato. Alcuni di loro hanno anche testimoniato in aula: cos’ha provato incontrandoli?
Non sono più bambini: sono adulti traumatizzati. E parlare con loro è difficilissimo, sono diffidenti. Vanno protetti anche dal punto di vista psicologico: la cosa terribile è che sono vittime e, spesso, allo stesso tempo, coinvolti nei crimini perché obbligati a combattere e uccidere, ma in quanto minorenni non sono perseguibili. Il primo testimone del processo Lubanga, per esempio, dopo un lungo lavoro di protezione e assistenza psicologica, ha testimoniato.

Quando lavorava al Tribunale per il Ruanda, lei ha conosciuto Pauline Nyiramasuhuko, ministro della famiglia e unica donna nella storia imputata di genocidio e complicità in stupro. Che effetto le ha fatto?
In qualità di procuratore l’ho interrogata: era imputata con altri cinque, compreso il figlio. È la prima donna, a livello di giustizia penale internazionale, accusata di genocidio e crimini contro l’umanità; la prima a essere anche accusata di  violenze sessuali per complicità: la sentenza è attesa per quest’anno.

Quella in Ruanda è stata l’esperienza umana più forte della sua carriera?
Sì, anche a livello professionale. Passavo dalla Camera penale di Milano all’Africa, mi sentivo come un medico che andava a fare qualcosa di utile in un luogo sfortunato. E di fronte a un genocidio ti senti investita di una responsabilità enorme: non dimenticherò mai lo sguardo dei sopravvissuti, che ti fa sentire colpevole, ti inchioda, anche quello dei bambini e delle donne di Taba, un piccolo villaggio, vittime di stupri atroci, con  bastoni, fucili, davanti ai familiari... Era come se i loro occhi dicessero: “Voi potevate fare qualcosa per evitarlo e non avete mosso un dito”. E lo stesso potremmo dire oggi per ciò che accade nella regione del Kivu, in Congo, e in Darfur, se non esistesse un’istituzione come la Corte penale internazionale che ha il mandato di prevenire e punire crimini gravissimi come il genocidio.

A proposito del Darfur: sul presidente sudanese, Omar al-Bashir, pende un mandato d’arresto della Corte dell’Aja dal marzo 2009 ma lui continua a girare indisturbato e alle ultime elezioni ha addirittura stravinto. Segno che la Corte è impotente?
La Corte non ha un’autorità esecutiva, non ha una propria polizia, ecco perché c’è bisogno della cooperazione degli Stati per gli arresti. Le vittime hanno bisogno che si ristabilisca la verità, e questo può farlo solo un tribunale con giudici imparziali. Dalla mia esperienza so che per le vittime la verità è importante quanto la riparazione.

Anche Joseph Kony, il capo dei ribelli ugandesi, è a piede libero. Si dice sia perché non riescono a trovarlo...
Se si vuole trovare qualcuno lo si trova. Evidentemente non si fanno abbastanza sforzi..

da Io donna, 10 luglio 2010

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