LA VITA IN UN BAZAR
Nel cuore di Cotonou, capitale economica del Benin, c'è un microcosmo fatto di baracche, rifiuti e bancarelle. E' lo snodo commerciale di Dantokpa, un gigantesco labirinto di fango e lamiere che nasconde traffici e violenze di ogni genere.
A Dantokpa puoi nascere, vivere, mettere su famiglia e morire senza mai conoscere altro orizzonte al di fuori dell’infinito groviglio di baracche in legno e lamiera sdraiato sulla laguna di Nokoué, con i colori delle merci in vendita che ti stordiscono rincorrendosi sulle strade nere di fango vecchio e sabbia fradicia. Lo sa bene Hassan, cappellino rosa da baseball, che è venuto qui con la madre da neonato, a sei anni l’ha persa nel caos di odori e umanità, e adesso che è un ragazzone di vent’anni racconta con mille parole che lui dorme fra il ponte Martin Luther King e la distesa di rifiuti a riva, guadagnando da vivere per sé, la sua donna e il figlio di un anno grazie a piccole tangenti chieste ai negozianti in cambio di un occhio speciale sulla sicurezza delle loro bancarelle.
Siamo a Cotonou, la capitale economica del Benin, piccolo Stato lungo e stretto affacciato sul golfo di Guinea fra la Nigeria e il Togo che durante la colonizzazione francese si dava arie da “quartiere latino” dell’Africa Occidentale. I suoi abitanti, discendenti dei gloriosi e sanguinari regni del Dahomey, non si sono mai occupati di agricoltura preferendo il commercio e imparando a vendere qualsiasi cosa: tessuti, verdure, animali, ferri vecchi, petrolio contrabbandato dalla Nigeria, oggetti tecnologici usati in arrivo dall’Europa. Che siano all’ingrosso o al dettaglio, nella rumorosa Cotonou gli scambi fanno da motore all’esistenza e quasi rappresentano l’identità di un luogo e di un popolo.
Dantokpa è il cuore pulsante di Cotonou, città dentro la città. È il più grande mercato dell’Africa Occidentale, allestito nel 1963 su un territorio di 13 ettari: oggi sta per superare i 20 ettari addossandosi alle abitazioni del centro. Il suo simbolo è una sirena stretta fra due serpenti: in fon, la lingua locale, il nome del mercato richiama una feroce e divinità animista, il serpente Dan che con la sua prepotenza dominava la laguna inghiottendo chiunque osasse invadere il suo territorio. Allo stesso modo Dantokpa ti soffoca e ti ammalia con la sua geometria illogica e traboccante di vita.
Qui arrivano commercianti non solo dal nord del Benin, con vacche, capre e polli vivi legati ai tetti delle automobili, ma anche dalla Nigeria, dal Niger, dalla Costa D’Avorio, dal Burkina Faso, e in aereo dalla Repubblica Democratica del Congo. Perché a Dantokpa un business si conclude sempre: lo snodo economico del piccolo Benin vanta un giro d’affari giornaliero di oltre un miliardo di franchi Cfa, oltre un milione e mezzo di euro. Ma non è dato sapere quanto sia esteso il popolo di Dantokpa: la Sogema, la società del ministero dell’Interno che rilascia le licenze, riscuote dai piccoli commercianti senza posto fisso 500 franchi Cfa al giorno (80 centesimi di euro) ma non ha statistiche su quanti vengano a lavorare e vivere.
Per noi yo-vo (i bianchi) ci vuole una guida. Non perché il mercato sia pericoloso, non più di qualsiasi luogo affollato di qualsiasi grande città, ma perché è facile perdersi, o finire in zone dove i guardiani non hanno piacere che gli stranieri si avventurino a curiosare.
Il nostro uomo si chiama Franck Akueson, è giovane, fa l’operatore di strada con le suore salesiane e conosce questo microcosmo come le sue tasche. Ci dà appuntamento alle 9, l’ora in cui Dantokpa inizia il suo lento risveglio che culmina nella grande folla di mezzogiorno. Franck ci fa percorrere il lungo fiume partendo dal ponte Martin Luther King fino a un anfratto tra la strada e la spiaggia dove si passa solo in fila indiana, per poi ritrovarsi di nuovo a ridosso dell’acqua, fra centinaia di donne che raccolgono il pesce dalle barche ormeggiate, abiti sgargianti e bambini legati sulla schiena. «Sono loro l’anima del mercato», spiega Franck. «Dormono dove capita, con i figli più piccoli, mentre i mariti restano nei villaggi lacustri a pescare e ogni mattina arrivano in barca con il pesce».
C’è Tulì, signora elegante e composta sulla sua seggiola marcia in bilico sulla sabbia, un vassoio di latta zeppo di carpe ancora vive: ci dice che lei, la figlia di 9 anni e la sorella dormono nella parte coperta del mercato, da tanti anni che nemmeno li ricorda. Come Aisha, che dal Gabon è venuta con i quattro figli a smerciare limoni disposti in piccole e perfette piramidi. «Tempo fa c’era più violenza, più furti, dormivi con un occhio aperto», racconta Tulì. «Adesso i guardiani si fanno pagare di più e ci proteggono meglio».
I guardiani in genere sono ex ragazzi di strada cresciuti nel ventre del serpente Dan: ai piccoli commercianti chiedono 2000 franchi Cfa al mese (circa 3 euro), ai più grossi anche 10.000 (15 euro), mentre a donne e bambini che non hanno uno spazio fisso dove vendere tengono un posto per dormire lontano dall’umidità del fiume, fra i sacchi di riso e farina ammassati dentro al grand batiment al coperto, in cambio di 50, 100 franchi (7, 14 centesimi di euro).
Paradossalmente per le donne beninesi, questa vita accanto dell’acqua sporca, con notti infestate di zanzare seguite da giornate di lunghe camminate con la merce ben ferma sulla testa, sono state veicolo di emancipazione: sono loro il motore economico di Dantokpa, di Cotonou, del Benin. La necessità le ha spinte verso l’indipendenza e un ruolo sociale ben riconosciuto.
Oltre che accanto alle barche, le vedi lungo le strade del mercato con pezzi di juta dove dispongono, con un piacere quasi artistico, la loro merce monotematica: limoni, peperoncini, cipolle, ignam. E tessuti: belli, dai colori sgargianti. Nei negozi più puliti, accanto a quelli di cellulari e televisori, un metro di tessuto wax costa 20 euro, ma ormai proliferano le imitazioni cinesi da 9 euro. «Ah, i cinesi!» sbuffa Madeleine, donnone sessantenne che da sempre smercia stoffe di qualità a Dantokpa. «Hanno aiutato il governo a ricostruire la parte del mercato distrutta dall’incendio del 2002, e ora si credono i padroni. Ma io la loro roba non ce la voglio nel mio negozio».
I nuovi magazzini negli edifici beige costruiti con finanziamenti cinesi sono ancora chiusi e vuoti: perfetti come dormitori per intere famiglie. Stanno vicino al parcheggio Mawulè, dove arrivano e partono centinaia di camion ogni giorno, alcuni anche con un carico umano di clandestini, soprattutto bambini, da trafficare come lavoratori a buon mercato oltre confine.
Celestine, Catherine, Louise ed Emilienne hanno dai 15 ai 22 anni e la schiavitù oltre frontiera l’hanno già provata. Poi sono tornate al villaggio ma solo per accorgersi che, per mangiare, dovevano rimettersi in cammino. Oggi vendono benzina a Dantokpa, hanno i volti pieni di cicatrici, dormono in uno stanzone allestito per loro dalle suore salesiane appena oltre l’incerto perimetro del mercato. Sarebbero cinquemila, secondo le stime degli operatori sociali, le ragazze di Dantokpa, e tremila i ragazzini-lavoratori.
«Non raccontano le violenze subite, per loro sono normali» spiega Elena Melani, giovane toscana che affianca le suore salesiane nel sostegno alle ragazze. «Arrivano con ustioni da ferro da stiro sulle gambe, peperoncini dentro la vagina, mani legate con i fili della corrente. E sono piene di rabbia: nella loro scala di valori, al primo posto c’è la salute, al secondo l’argent. Riescono a pensare solo all’oggi, il futuro non esiste».
Alcune siedono con le loro bottiglie di benzina sul ponte nuovo che sovrasta il viale Saint Michel, l’unico punto in cui puoi vedere, o meglio immaginare, il reame del serpente in tutta la sua estensione. Come un informe animale preistorico indifferente al rumore della città intorno.
Da Africa, luglio-agosto 2010
A Dantokpa puoi nascere, vivere, mettere su famiglia e morire senza mai conoscere altro orizzonte al di fuori dell’infinito groviglio di baracche in legno e lamiera sdraiato sulla laguna di Nokoué, con i colori delle merci in vendita che ti stordiscono rincorrendosi sulle strade nere di fango vecchio e sabbia fradicia. Lo sa bene Hassan, cappellino rosa da baseball, che è venuto qui con la madre da neonato, a sei anni l’ha persa nel caos di odori e umanità, e adesso che è un ragazzone di vent’anni racconta con mille parole che lui dorme fra il ponte Martin Luther King e la distesa di rifiuti a riva, guadagnando da vivere per sé, la sua donna e il figlio di un anno grazie a piccole tangenti chieste ai negozianti in cambio di un occhio speciale sulla sicurezza delle loro bancarelle.
Siamo a Cotonou, la capitale economica del Benin, piccolo Stato lungo e stretto affacciato sul golfo di Guinea fra la Nigeria e il Togo che durante la colonizzazione francese si dava arie da “quartiere latino” dell’Africa Occidentale. I suoi abitanti, discendenti dei gloriosi e sanguinari regni del Dahomey, non si sono mai occupati di agricoltura preferendo il commercio e imparando a vendere qualsiasi cosa: tessuti, verdure, animali, ferri vecchi, petrolio contrabbandato dalla Nigeria, oggetti tecnologici usati in arrivo dall’Europa. Che siano all’ingrosso o al dettaglio, nella rumorosa Cotonou gli scambi fanno da motore all’esistenza e quasi rappresentano l’identità di un luogo e di un popolo.
Dantokpa è il cuore pulsante di Cotonou, città dentro la città. È il più grande mercato dell’Africa Occidentale, allestito nel 1963 su un territorio di 13 ettari: oggi sta per superare i 20 ettari addossandosi alle abitazioni del centro. Il suo simbolo è una sirena stretta fra due serpenti: in fon, la lingua locale, il nome del mercato richiama una feroce e divinità animista, il serpente Dan che con la sua prepotenza dominava la laguna inghiottendo chiunque osasse invadere il suo territorio. Allo stesso modo Dantokpa ti soffoca e ti ammalia con la sua geometria illogica e traboccante di vita.
Qui arrivano commercianti non solo dal nord del Benin, con vacche, capre e polli vivi legati ai tetti delle automobili, ma anche dalla Nigeria, dal Niger, dalla Costa D’Avorio, dal Burkina Faso, e in aereo dalla Repubblica Democratica del Congo. Perché a Dantokpa un business si conclude sempre: lo snodo economico del piccolo Benin vanta un giro d’affari giornaliero di oltre un miliardo di franchi Cfa, oltre un milione e mezzo di euro. Ma non è dato sapere quanto sia esteso il popolo di Dantokpa: la Sogema, la società del ministero dell’Interno che rilascia le licenze, riscuote dai piccoli commercianti senza posto fisso 500 franchi Cfa al giorno (80 centesimi di euro) ma non ha statistiche su quanti vengano a lavorare e vivere.
Per noi yo-vo (i bianchi) ci vuole una guida. Non perché il mercato sia pericoloso, non più di qualsiasi luogo affollato di qualsiasi grande città, ma perché è facile perdersi, o finire in zone dove i guardiani non hanno piacere che gli stranieri si avventurino a curiosare.
Il nostro uomo si chiama Franck Akueson, è giovane, fa l’operatore di strada con le suore salesiane e conosce questo microcosmo come le sue tasche. Ci dà appuntamento alle 9, l’ora in cui Dantokpa inizia il suo lento risveglio che culmina nella grande folla di mezzogiorno. Franck ci fa percorrere il lungo fiume partendo dal ponte Martin Luther King fino a un anfratto tra la strada e la spiaggia dove si passa solo in fila indiana, per poi ritrovarsi di nuovo a ridosso dell’acqua, fra centinaia di donne che raccolgono il pesce dalle barche ormeggiate, abiti sgargianti e bambini legati sulla schiena. «Sono loro l’anima del mercato», spiega Franck. «Dormono dove capita, con i figli più piccoli, mentre i mariti restano nei villaggi lacustri a pescare e ogni mattina arrivano in barca con il pesce».
C’è Tulì, signora elegante e composta sulla sua seggiola marcia in bilico sulla sabbia, un vassoio di latta zeppo di carpe ancora vive: ci dice che lei, la figlia di 9 anni e la sorella dormono nella parte coperta del mercato, da tanti anni che nemmeno li ricorda. Come Aisha, che dal Gabon è venuta con i quattro figli a smerciare limoni disposti in piccole e perfette piramidi. «Tempo fa c’era più violenza, più furti, dormivi con un occhio aperto», racconta Tulì. «Adesso i guardiani si fanno pagare di più e ci proteggono meglio».
I guardiani in genere sono ex ragazzi di strada cresciuti nel ventre del serpente Dan: ai piccoli commercianti chiedono 2000 franchi Cfa al mese (circa 3 euro), ai più grossi anche 10.000 (15 euro), mentre a donne e bambini che non hanno uno spazio fisso dove vendere tengono un posto per dormire lontano dall’umidità del fiume, fra i sacchi di riso e farina ammassati dentro al grand batiment al coperto, in cambio di 50, 100 franchi (7, 14 centesimi di euro).
Paradossalmente per le donne beninesi, questa vita accanto dell’acqua sporca, con notti infestate di zanzare seguite da giornate di lunghe camminate con la merce ben ferma sulla testa, sono state veicolo di emancipazione: sono loro il motore economico di Dantokpa, di Cotonou, del Benin. La necessità le ha spinte verso l’indipendenza e un ruolo sociale ben riconosciuto.
Oltre che accanto alle barche, le vedi lungo le strade del mercato con pezzi di juta dove dispongono, con un piacere quasi artistico, la loro merce monotematica: limoni, peperoncini, cipolle, ignam. E tessuti: belli, dai colori sgargianti. Nei negozi più puliti, accanto a quelli di cellulari e televisori, un metro di tessuto wax costa 20 euro, ma ormai proliferano le imitazioni cinesi da 9 euro. «Ah, i cinesi!» sbuffa Madeleine, donnone sessantenne che da sempre smercia stoffe di qualità a Dantokpa. «Hanno aiutato il governo a ricostruire la parte del mercato distrutta dall’incendio del 2002, e ora si credono i padroni. Ma io la loro roba non ce la voglio nel mio negozio».
I nuovi magazzini negli edifici beige costruiti con finanziamenti cinesi sono ancora chiusi e vuoti: perfetti come dormitori per intere famiglie. Stanno vicino al parcheggio Mawulè, dove arrivano e partono centinaia di camion ogni giorno, alcuni anche con un carico umano di clandestini, soprattutto bambini, da trafficare come lavoratori a buon mercato oltre confine.
In un Paese dove il reddito medio pro-capite non raggiunge i 500 euro annui e il 47 per cento degli 8 milioni di abitanti vive con meno di 90 centesimi al giorno, una ricerca del governo e dell’Unicef ha contato 40mila giovani vittime ogni anno, trasportate illegalmente lungo frontiere di burro verso la Nigeria e il Gabon. L’86 per cento sono bambine e ragazze. Facile reclutarle nei villaggi lacustri e nella frenesia di Dantokpa.
Celestine, Catherine, Louise ed Emilienne hanno dai 15 ai 22 anni e la schiavitù oltre frontiera l’hanno già provata. Poi sono tornate al villaggio ma solo per accorgersi che, per mangiare, dovevano rimettersi in cammino. Oggi vendono benzina a Dantokpa, hanno i volti pieni di cicatrici, dormono in uno stanzone allestito per loro dalle suore salesiane appena oltre l’incerto perimetro del mercato. Sarebbero cinquemila, secondo le stime degli operatori sociali, le ragazze di Dantokpa, e tremila i ragazzini-lavoratori.
«Non raccontano le violenze subite, per loro sono normali» spiega Elena Melani, giovane toscana che affianca le suore salesiane nel sostegno alle ragazze. «Arrivano con ustioni da ferro da stiro sulle gambe, peperoncini dentro la vagina, mani legate con i fili della corrente. E sono piene di rabbia: nella loro scala di valori, al primo posto c’è la salute, al secondo l’argent. Riescono a pensare solo all’oggi, il futuro non esiste».
Alcune siedono con le loro bottiglie di benzina sul ponte nuovo che sovrasta il viale Saint Michel, l’unico punto in cui puoi vedere, o meglio immaginare, il reame del serpente in tutta la sua estensione. Come un informe animale preistorico indifferente al rumore della città intorno.
Da Africa, luglio-agosto 2010
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