HO VISSUTO TRE VOLTE
Suo marito ha denunciato la ’ndrangheta. Sono fuggiti dalla Calabria, nascondendosi per 13 anni. Ora che ricominciano a esistere, Marisa Masciari per la prima volta svela il suo volto
“Come mi trovi? Hai visto? Ho anche preso qualche chilo”. Sì Marisa, sei bella. Luminosa. Distante dalla figura prosciugata che ho incontrato due anni fa al tavolo di un bar di provincia, in una località da tenere segreta, e poi ti ho accompagnata quasi fino a casa, un’ora e mezzo di treno, perché dicevi di avere tanto altro da raccontarmi ma in realtà non volevi viaggiare da sola.
Anche oggi non si può scrivere dove abita Marisa Masciari. Un’imprecisata città del Nord Italia, diremo. “Lo sanno in molti” sorride lei “ma preferisco mantenere una forma di cautela... Tanto so bene che chi vuole trovarci lo farà comunque”.
Marisa è una donna che visse tre volte.
Le prime due vite, le ho raccontate nell’autunno del 2008 su Io donna. Ora la terza riparte da un libro, Organizzare il coraggio (Add editore), che esce in questi giorni ed è scritto con il marito Pino per ripercorrere la loro storia e raccontare quello che chiamano “l’inizio”. Che va in scena in questa villetta a due piani con giardino, i muri che odorano di nuovo, il televisore ancora nel cellophan, il sole che quasi ferisce attraverso le finestre senza tende. “No, quelle non le ho messe di proposito. Voglio poter guardare fuori”.
Nella sua prima vita, 13 anni fa, Marisa era una donna benestante e realizzata. Medico dentista a Serra San Bruno, un paese del Vibonese. Moglie di un imprenditore edile molto in vista, uno che gestiva appalti anche all’estero per 25 miliardi di lire e impiegava oltre 200 persone. Case al mare e in montagna. Amici, rispetto. E la scure della ’ndrangheta sulla testa.
Il marito, Pino Masciari, si ribella e denuncia, fa condannare 41 affiliati alle ’ndrine più sanguinarie di quattro province (dagli Arena ai Vallelunga, per intenderci) e persino un magistrato. Diventa testimone di giustizia, “uomo morto che cammina” si dice dalle sue parti: il 17 ottobre 1997 Pino, Marisa e i due figli piccoli devono fuggire all’improvviso, nascondersi in tre città diverse. Marisa sta ancora allattando la bimba più piccola. Diventano fantasmi, annullati e logorati da un rapporto difficile con lo Stato che deve proteggerli: scorte che non arrivano, o che per incuria lasciano piccoli segnali pericolossimi in terra di ’ndrangheta.
La seconda vita di Marisa sa di rabbia e bulimia, mentre Pino si espone, parla in pubblico, coinvolge associazioni nella sua battaglia di legalità.
L’avevo lasciata là, Marisa, tremante per un’imminente sentenza del Tar del Lazio che doveva sancire il loro diritto alla sicurezza, perché per chi sfida l’organizzazione criminale più potente al mondo non può esistere un momento in cui dirsi fuori pericolo. La sentenza è arrivata nel 2009. E dal 25 aprile di quest’anno Pino e Marisa sono fuori dal programma di protezione speciale: che significa che possono ricostruirsi un’esistenza con le loro identità, riprendere a lavorare, mantenendo (grazie a quella sentenza, che è un caso unico e farà giurisprudenza) il diritto alla scorta e un’attenzione particolare da parte dello Stato.
“Non è una favola a lieto fine” chiarisce lei servendo il caffè. “La paura non mi abbandona mai e la vera libertà non me la restituirà più nessuno. L’anno scorso hanno messo una bomba sul davanzale della finestra dell’ufficio di Pino in Calabria, come a dire che nella nostra terra non dobbiamo farci vedere. Una notte siamo stati sorpresi da due sconosciuti in camera da letto, che si sono dileguati senza rubare niente: possono entrare in casa nostra quando vogliono”.
Come si riprende in mano la vita dopo un lungo limbo? “Aprendo finalmente gli scatoloni” sorride Marisa. “In tutto questo tempo erano stati sempre chiusi, come a congelare la mia esistenza di precarietà. Ora ho anche avuto la forza di riporre le fotografie di famiglia nelle cornici d’argento. E per la prima volta ho letto un libro: prima scorrevo solo carte burocratiche, la mia testa era immersa in quel mondo di clandestinità forzata. Sognavamo che lo Stato ci proteggesse nella nostra terra, senza costringerci a lasciare tutto: sarebbe stato un segnale forte per la ’ndrangheta. Non è stato possibile”.
In tutta Italia Pino è invitato come testimone di coraggio (Marisa ancora non se la sente, di parlare in pubblico); a Serra San Bruno si voltano dall’altra parte. Là non è un eroe: è un infame, Marisa con lui. Le famiglie si fanno raramente sentire. “Ma non rimpiango nulla, di questa scelta. Rimpiango solo la giovinezza perduta, la mia spensieratezza. Volevo fare carriera come dentista: sono fuggita a 31 anni, oggi ne ho 44 anni e i sogni si sono infranti”.
L’inizio è il volontariato in una struttura sanitaria per persone disagiate, dove Marisa sta riprendendo la manualità e le tecniche della sua professione. E’ l’uscita a cena e il cinema, “ma sai, quando sono fuori mi viene subito voglia di rientrare a casa, mi prende quasi il panico, dopo tutto questo tempo di cattività”. Sono i due figli che vanno al liceo, “e finalmente parliamo loro dei nostri ricordi, delle cose belle, perché devono sapere che mamma e papà non sono sempre stati scuri e rabbiosi”. E’ Pino che si è finalmente vista archiviare la procedura di fallimento dell’azienda, e può ricominciare a fare l’imprenditore anche se è tentato dalla politica. E’ la riconciliazione con lo Stato che sembrava averli bistrattati e traditi.
“Quando siamo entrati nel programma di protezione” precisa Marisa “non c’era ancora una legge sui testimoni di giustizia. Eravamo uguali ai pentiti, quando invece il testimone è una persona che non fa parte di organizzazioni criminali: è un cittadino che ha il coraggio di denunciare”. La legge è arrivata nel 2001. Pino e Marisa sono stati i pionieri, “le cavie” dice lei “di un sistema che oggi funziona meglio. E dovrebbe incoraggiare molte più persone, al Sud, a ribellarsi alle leggi del crimine. Il nostro libro vuole essere questo, una specie di vademecum. Non è necessario essere eroi per compiere un atto di coraggio. Io non sono nessuno. Ma adesso che ogni oggetto è al suo posto, in questa che finalmente posso dire casa mia, anche io mi sento al mio posto. Non è la fine. E’ solo l’inizio”.
Da Io donna, 30 ottobre 2010
E anche sul Corriere.it
foto di Alessandro Albert |
“Come mi trovi? Hai visto? Ho anche preso qualche chilo”. Sì Marisa, sei bella. Luminosa. Distante dalla figura prosciugata che ho incontrato due anni fa al tavolo di un bar di provincia, in una località da tenere segreta, e poi ti ho accompagnata quasi fino a casa, un’ora e mezzo di treno, perché dicevi di avere tanto altro da raccontarmi ma in realtà non volevi viaggiare da sola.
Anche oggi non si può scrivere dove abita Marisa Masciari. Un’imprecisata città del Nord Italia, diremo. “Lo sanno in molti” sorride lei “ma preferisco mantenere una forma di cautela... Tanto so bene che chi vuole trovarci lo farà comunque”.
Marisa è una donna che visse tre volte.
Le prime due vite, le ho raccontate nell’autunno del 2008 su Io donna. Ora la terza riparte da un libro, Organizzare il coraggio (Add editore), che esce in questi giorni ed è scritto con il marito Pino per ripercorrere la loro storia e raccontare quello che chiamano “l’inizio”. Che va in scena in questa villetta a due piani con giardino, i muri che odorano di nuovo, il televisore ancora nel cellophan, il sole che quasi ferisce attraverso le finestre senza tende. “No, quelle non le ho messe di proposito. Voglio poter guardare fuori”.
Nella sua prima vita, 13 anni fa, Marisa era una donna benestante e realizzata. Medico dentista a Serra San Bruno, un paese del Vibonese. Moglie di un imprenditore edile molto in vista, uno che gestiva appalti anche all’estero per 25 miliardi di lire e impiegava oltre 200 persone. Case al mare e in montagna. Amici, rispetto. E la scure della ’ndrangheta sulla testa.
Il marito, Pino Masciari, si ribella e denuncia, fa condannare 41 affiliati alle ’ndrine più sanguinarie di quattro province (dagli Arena ai Vallelunga, per intenderci) e persino un magistrato. Diventa testimone di giustizia, “uomo morto che cammina” si dice dalle sue parti: il 17 ottobre 1997 Pino, Marisa e i due figli piccoli devono fuggire all’improvviso, nascondersi in tre città diverse. Marisa sta ancora allattando la bimba più piccola. Diventano fantasmi, annullati e logorati da un rapporto difficile con lo Stato che deve proteggerli: scorte che non arrivano, o che per incuria lasciano piccoli segnali pericolossimi in terra di ’ndrangheta.
La seconda vita di Marisa sa di rabbia e bulimia, mentre Pino si espone, parla in pubblico, coinvolge associazioni nella sua battaglia di legalità.
L’avevo lasciata là, Marisa, tremante per un’imminente sentenza del Tar del Lazio che doveva sancire il loro diritto alla sicurezza, perché per chi sfida l’organizzazione criminale più potente al mondo non può esistere un momento in cui dirsi fuori pericolo. La sentenza è arrivata nel 2009. E dal 25 aprile di quest’anno Pino e Marisa sono fuori dal programma di protezione speciale: che significa che possono ricostruirsi un’esistenza con le loro identità, riprendere a lavorare, mantenendo (grazie a quella sentenza, che è un caso unico e farà giurisprudenza) il diritto alla scorta e un’attenzione particolare da parte dello Stato.
“Non è una favola a lieto fine” chiarisce lei servendo il caffè. “La paura non mi abbandona mai e la vera libertà non me la restituirà più nessuno. L’anno scorso hanno messo una bomba sul davanzale della finestra dell’ufficio di Pino in Calabria, come a dire che nella nostra terra non dobbiamo farci vedere. Una notte siamo stati sorpresi da due sconosciuti in camera da letto, che si sono dileguati senza rubare niente: possono entrare in casa nostra quando vogliono”.
Come si riprende in mano la vita dopo un lungo limbo? “Aprendo finalmente gli scatoloni” sorride Marisa. “In tutto questo tempo erano stati sempre chiusi, come a congelare la mia esistenza di precarietà. Ora ho anche avuto la forza di riporre le fotografie di famiglia nelle cornici d’argento. E per la prima volta ho letto un libro: prima scorrevo solo carte burocratiche, la mia testa era immersa in quel mondo di clandestinità forzata. Sognavamo che lo Stato ci proteggesse nella nostra terra, senza costringerci a lasciare tutto: sarebbe stato un segnale forte per la ’ndrangheta. Non è stato possibile”.
In tutta Italia Pino è invitato come testimone di coraggio (Marisa ancora non se la sente, di parlare in pubblico); a Serra San Bruno si voltano dall’altra parte. Là non è un eroe: è un infame, Marisa con lui. Le famiglie si fanno raramente sentire. “Ma non rimpiango nulla, di questa scelta. Rimpiango solo la giovinezza perduta, la mia spensieratezza. Volevo fare carriera come dentista: sono fuggita a 31 anni, oggi ne ho 44 anni e i sogni si sono infranti”.
L’inizio è il volontariato in una struttura sanitaria per persone disagiate, dove Marisa sta riprendendo la manualità e le tecniche della sua professione. E’ l’uscita a cena e il cinema, “ma sai, quando sono fuori mi viene subito voglia di rientrare a casa, mi prende quasi il panico, dopo tutto questo tempo di cattività”. Sono i due figli che vanno al liceo, “e finalmente parliamo loro dei nostri ricordi, delle cose belle, perché devono sapere che mamma e papà non sono sempre stati scuri e rabbiosi”. E’ Pino che si è finalmente vista archiviare la procedura di fallimento dell’azienda, e può ricominciare a fare l’imprenditore anche se è tentato dalla politica. E’ la riconciliazione con lo Stato che sembrava averli bistrattati e traditi.
“Quando siamo entrati nel programma di protezione” precisa Marisa “non c’era ancora una legge sui testimoni di giustizia. Eravamo uguali ai pentiti, quando invece il testimone è una persona che non fa parte di organizzazioni criminali: è un cittadino che ha il coraggio di denunciare”. La legge è arrivata nel 2001. Pino e Marisa sono stati i pionieri, “le cavie” dice lei “di un sistema che oggi funziona meglio. E dovrebbe incoraggiare molte più persone, al Sud, a ribellarsi alle leggi del crimine. Il nostro libro vuole essere questo, una specie di vademecum. Non è necessario essere eroi per compiere un atto di coraggio. Io non sono nessuno. Ma adesso che ogni oggetto è al suo posto, in questa che finalmente posso dire casa mia, anche io mi sento al mio posto. Non è la fine. E’ solo l’inizio”.
Da Io donna, 30 ottobre 2010
E anche sul Corriere.it
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