ANGELO (O DEI PECCATI DI OMISSIONE)
Uscirà a giorni il libro 40 anni tra i lupi (Gabrielli Editori), curato dalla sottoscritta. Un piccolo atto di amicizia verso una persona che considero più che speciale, non di questo mondo.
Frate Beppe Prioli è un francescano disarmante che ha fatto del volontariato in carcere la missione della sua esistenza. Ha iniziato tanto tempo fa, ventenne, e da allora gira instancabile per le galere d’Italia a cercare gli uomini dentro i criminali.
Seguendolo, avevo scritto nel 2004 il libro Risvegliato dai lupi (Edizioni Paoline), un lungo reportage dietro le sbarre attraverso una galleria di ritratti dolorosi e strabordanti di perché. Nel 2008 ho curato per fra’ Beppe questo 40 anni tra i lupi, sistemando i diari dei suoi detenuti e dei volontari della sua associazione, La Fraternità di Verona.
Ora ne viene pubblicata una nuova edizione, migliorata e ampliata, perché fra’ Beppe alla comunicazione ci tiene.
La storia di Angelo, condannato per concorso in omicidio, è quella cui sono, da sempre, più affezionata. Ne scrivo così nelle pagine conclusive.
Mentre mando in stampa questo libro, viene ritrovato un cadavere nelle campagne attorno a Massa Carrara.
Ho parlato con fra’ Beppe l’altra sera. Come sempre, ci siamo rincorsi al telefono per un paio di giorni. Lui chiama quando io sto intervistando qualcuno o sono in riunione con i miei capi. Io chiamo quando lui è in carcere, in qualche parte d’Italia, e il suo cellulare resta spento per ore.
L’altra sera abbiamo parlato delle fotografie che corredano questo testo. Quante devono essere, quali i soggetti, i soliti dubbi di fra’ Beppe per evitare di lasciare fuori qualcuno di importante. «Beppe, scegli le foto per te più significative. E i tuoi ritratti li ho io già in formato digitale, non preoccuparti».
Lui è preoccupato, ma non per le fotografie, e nemmeno per questo libro, sul quale sta investendo parecchio. È preoccupato per Angelo. «Sai, in carcere non lo vedono da ieri, non è rientrato dalla semilibertà». Chiedo: «È evaso? Come è possibile?». E Beppe, la voce incrinata come non gliela sentivo da parecchio tempo: «Ma no, non posso credere che sia evaso, non è da lui. Ho paura che abbia avuto un incidente in macchina, o che qualcuno… Non lo so che giri stia frequentando, ma ultimamente so che gioca al videopoker, ha ancora problemi con le sostanze… Non so cosa pensare».
Fra’ Beppe non manca mai di aggiornarmi sui suoi “lupi”, i detenuti che anch’io ho incontrato insieme a lui, quelli con le vicende più intricate e dolorose: Francesco, Marco, Thomas, Alberto, Marino… Con lui, ho dovuto da subito sottoscrivere idealmente un patto d’acciaio, la cui violazione, per fra’ Beppe, sarebbe una violentissima pugnalata alle spalle che decreterebbe la fine della nostra amicizia, senza appello: qualsiasi storia di cronaca nera che lui mi avesse raccontato, qualsiasi vicenda processuale, o le confessioni dei suoi detenuti, io non avrei mai dovuto farne oggetto di articoli giornalistici. Una sofferenza, per me, che chi non fa il mio mestiere non può capire: in questi anni mi sono passati tra le mani decine di piccoli scoop giornalistici, ma sono rimasti rinchiusi nella mia testa. Uno come fra’ Beppe non si può tradire. E io, da autentica siciliana d’altri tempi, mantengo la parola data.
Ieri sera fra’ Beppe era agitato, di un’ansia mista a tristezza. Ma non deluso. Di Angelo mai. Fra tutti i detenuti che il frate segue da tempo, con cura e affetto, ci sono tre giovani speciali, per lui: Francesco, Thomas. E Angelo. I suoi figli. Quelli che hanno sempre meritato la sua dolcezza, la sua indulgenza, i suoi pensieri più puri.
Una sera di qualche anno fa, davanti a un boccale di birra - una di quelle sere in cui ci capita di mettere in comune le nostre stanchezze e le parole fluiscono senza freni, liberatorie, ed entrambi dimentichiamo per qualche ora i nostri ruoli, io giornalista e lui religioso, per ritrovarci semplicemente amici - Beppe mi ha fatto una confessione che non mi aspettavo, e che mi ha sorpresa più di tutte le incredibili storie di assassini e delinquenti che da anni mi racconta come una persona qualsiasi racconterebbe le sue quotidianità familiari. Parlavamo di Angelo. «Ho un solo rimpianto nella mia vita», mi ha detto all’improvviso, «una cosa sola alla quale, diventando frate, ho dovuto rinunciare, e che mi manca tanto. Un figlio. Angelo, per me, è un figlio».
E allora, chi è Angelo?
L’ho conosciuto a Potenza, una sera di inverno del 2003. Nevicava. Ricordo Potenza come un luogo buio e gelido, un labirinto di sali-scendi, un silenzio ovattato che sarebbe in grado di soffocare qualsiasi grido.
La cucina di Angelo, nella sua casa in mezzo alla campagna, era incredibilmente calda grazie alla legna che bruciava nel camino. Aveva preparato con perizia e lentezza delle bruschette al pomodoro e delle costolette d’agnello. C’erano suo padre e la sorella Daniela: bella, dolce. Mi sembrava di conoscerla da sempre. E c’era fra’ Beppe, naturalmente.
Avevo macinato quel viaggio lungo e complicato – da Milano si fa prima ad arrivare a Berlino, con il treno, che a Potenza – per scrivere un capitolo di Risvegliato dai lupi, il libro che ho pubblicato nel 2004 raccogliendo le storie che fra’ Beppe mi porgeva dal suo archivio di ricordi, lontani e recenti. Il lavoro grazie al quale io e lui ci siamo conosciuti, piano piano, studiandoci con curiosità e finendo per capire con un certo stupore che c’è una manciata di valori, semplicissimi ma fondamentali, ad accomunarci.
Noi due così lontani geograficamente, per età, per ambiente sociale, per stile di vita, per tutto. Io ero una giovane giornalista appassionata di cronaca nera, ma anche desiderosa di approfondire e andare oltre il titolo sensazionale. Lui era il “frate degli ergastolani”, uscito dal coma qualche tempo prima, che voleva fortemente scrivere un altro libro (dopo Fratello Lupo) per raccontare il carcere e l’umanità che vi si agita dentro.
Quello su Angelo – fra’ Beppe non me lo disse mai esplicitamente ma nella sua testa era così, lo capii presto – doveva essere il capitolo portante. La storia del ragazzo di Potenza era quella a cui lui teneva di più. Mi parlò di Angelo subito, al nostro primo incontro, inondandomi di parole. Mi raccontò di Angelo, di Carolina Daraio, delle persone di buona volontà che a Potenza tentavano di costituire un’associazione che facesse finalmente vivere il carcere della città.
Angelo è un ragazzo fragile che vuole fortemente diventare uomo ma non ci riuscirà mai. Quella sera, nel tepore della sua cucina, fece gentilmente uscire il padre e la sorella e, sotto lo sguardo paterno di fra’ Beppe, mi raccontò di quando non riusciva a staccare lo sguardo dalle mani dell’amico Vito, graffiate a sangue dalle unghie della donna che aveva strangolato con una cordicella.
È la sera del 24 marzo 1999. Angelo e Vito hanno entrambi ventun anni. Non hanno soldi per la dose d’eroina, sono annebbiati dall’astinenza, abbrutiti. E quando non hanno soldi sanno dove cercarli: in via Manhes, a casa di Carolina Daraio, che era stata loro insegnante alle scuole medie e continua ad amarli come figli. Soprattutto Angelo, che ha perso la madre da piccolo. Ai figli è difficile dire di no, negare anche ciò che sappiamo farà loro del male. Carolina è un’altra persona fragile, in questa cupa vicenda: una donna sola, 56 anni mal portati, che cerca conforto nella parrocchia, nei gruppi di preghiera, nel suo lavoro di insegnante. Una che ha un concetto di carità sincero ma ingenuo. E quella sera qualcosa in lei cambia.
Forse vede Angelo e Vito, finalmente, per quello che sono in quel momento: due tossicodipendenti, giovani che buttano via la loro esistenza. E nello sfondo Carolina rivede se stessa, una donna buona che non ha mai riflettuto su cosa sia davvero la bontà: si è illusa di esercitare con loro un’encomiabile carità cristiana, e ora realizza come in un flash che quei soldi non serviranno ad altro che a farli spegnere di nuovo, lentamente, un giorno in più di disperazione.
Quella sera Carolina nega loro il denaro. Vito è accecato di rabbia. Minaccia la professoressa con una cordicella. Angelo guarda senza mettere a fuoco la scena. È paralizzato dall’astinenza. Quando Vito sta per strangolare la donna, Angelo scappa.
Sarà condannato anche lui: concorso in omicidio, diciott’anni di galera.
Fra’ Beppe sente quella notizia dal Veneto. Va a Potenza, incoraggia un gruppo di volenterosi a occuparsi di carcere e di prevenzione del disagio giovanile. Cerca di scuotere una comunità chiusa e indolente, e per un certo periodo ci riesce, organizzando convegni, incontri, momenti informativi sul carcere e la devianza. E Angelo diventa suo figlio.
Il frate riesce a farlo trasferire in un carcere modello, a Massa, dove la maggior parte dei detenuti ha la possibilità di lavorare, dando un qualche senso alla pena e nutrendo qualche speranza in più di reinserirsi, una volta riavuta la libertà. Angelo sta meglio. Comincia a godere dei permessi premio, arriva la semilibertà. Poi qualcosa si spezza. Oppure è l’antico grumo di dolore che riaffiora e si diluisce dentro di lui, inondandolo tutto.
«Mi aveva confessato che faceva ancora uso di droga», bisbiglia fra’ Beppe. «Non riusciva a uscirne. Era disperato. E mi ha fatto quella confessione per liberarsi dal peso del senso di colpa, quello che provava verso di me e verso la sorella Daniela, che lo amavamo così tanto. Sentiva di deluderci, ma non riusciva a fermarsi. La sua vita, ormai, era fatta di amore e disperazione».
Quella sera del 2003 a casa sua, a Potenza, dove Angelo scontava gli arresti domiciliari in attesa che la pena diventasse definitiva, mi aveva dato l’impressione di un ragazzo che implori di essere punito. Diciott’anni di carcere sono tanti, per una persona che materialmente non ha commesso un omicidio, ma sembrava proprio che Angelo sentisse il bisogno, intimamente, di pagare per il suo imperdonabile peccato di omissione.
Aveva permesso che una donna a cui lui voleva bene venisse ammazzata.
Era rimasto inerte, a bocca aperta, colpevole spettatore di gesso della furia dell’amico. Un imperdonabile peccato di omissione. «Io potevo evitare il male», mi ha detto. «È una consapevolezza che mi porto scolpita nell’anima e che non mi abbandonerà mai».
A cena, quella sera, Angelo ha insistito per sedersi accanto a fra’ Beppe. «Lui mi ha insegnato che esiste la speranza», mi ha detto poi, «che si può credere in qualcosa e che è possibile cambiare direzione alla propria vita».
Mentre mando in stampa questo libro, si stanno celebrando a Potenza i funerali di Angelo Lovallo, trent’anni, il corpo pieno di lividi. La chiesa è gremita di gente.
Fra’ Beppe mi ha telefonato l’altra mattina. Non ha detto né “pronto” né “ciao”, né ha messo il soggetto della frase. Ha detto solo: «Si è suicidato».
E io penso di sapere quanti e quali mostri si stiano agitando adesso dentro il cuore del frate. Per questo, desidero ricordargli una frase che Angelo gli scriveva il 28 luglio del 2003 in una lettera dal carcere: «Caro fra’ Beppe, non smetterò mai di volerti bene». E, qualche riga più sopra: «La libertà, senza saperla vivere, non serve a niente».
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