LA STANZA DI THENJIWE
1° dicembre, Giornata mondiale contro l’Aids.
Il Sudafrica (dove sono appena stata, lasciandoci un pezzo della mia emotività) registra la diffusione più ampia al mondo del virus del Hiv.
Cinque milioni e settecentomila sudafricani ne sono affetti: oltre un decimo della popolazione del Paese. Il 77 per cento di loro sono donne.
Meno di un terzo dei malati riceve terapie antiretrovirali.
Povertà? Ignoranza? Endemica resistenza all’uso del preservativo? Abnorme frequenza degli stupri? Finché non ci sarà una risposta per tutta l’Africa Sub-sahariana, non ci sarà una soluzione.
Ecco quello che mi raccontavano a Johannesburg e dintorni.
(In ricordo di Thenjiwe, la ragazza citata alla fine del brano: non ho dubbi che sia morta poco dopo la mia visita.)
«L'insistenza sul profilattico ha ormai fatto il suo tempo» dice convinto Rajesh Latehman, presidente di The Aids Consortium, un cartello di associazioni non profit.
«È come con il fumo: la gente sa che fa male ma non smette. Così con il profilattico: si sa che può difendere dall'Aids, ma si continua a usarlo poco. Bisogna cambiare strategia, cominciando dall'educazione sessuale e dall'accesso ai farmaci per tutti, affinché le persone si persuadano che l'Hiv non è un'istantanea condanna a morte. Altrimenti la nostra classe lavorativa scomparirà nel giro di pochi anni».
Secondo Latehman, a fare davvero la differenza nella sensibilizzazione e nell'assistenza sono le comunità di base e le piccole associazioni locali. Come il gruppo di donne della parrocchia Saint Isador a Soweto, la township ex città-ghetto simbolo dell'apartheid: Nozizwi, Josephine, Daphney e le altre venti volontarie sono le uniche infermiere su cui contano gli abitanti di Protea Glen, estremo sudovest della township.
Un dato che stupisce, visto che l'ingresso di Soweto è dominato dal Baragwanath, l'ospedale più grande dell'emisfero australe. «Dista mezz'ora d'auto, e qui nessuno ha la macchina», spiega Nozizwi, mentre porta piatti di riso, carne e verdure a un gruppo di malati che sosta nel cortile della parrocchia.
Poi, con la giovane Daphney, comincia il giro quotidiano: la prima tappa è la casa di Thenjiwe, una ragazza di vent'anni che da mesi non si alza dal letto. Ha piaghe su tutto il corpo, vive con la madre che non la cura perché è infettata anche lei.
La sua stanza è calda e umida, odora forte di malattia, e lo sguardo di Thenjiwe sembra già viaggiare altrove.
«Ha fatto il test dell'Hiv solo quando stava già male» spiega Daphney. «Non può chiedere i farmaci perché non ha documenti».
La ragazza non parla. Guarda, ma forse non vede. Non cerca nemmeno più una ragione, una risposta.
Fuori dalla sua casa, bassa e anonima come in tutta Protea Glen, un uomo ride e delira parole sconnesse. «È impazzito quando ha saputo di essere sieropositivo - sussurra Nozizwi - è fuggito dall'ospedale e vive per strada».
Nessuno ha fatto in tempo a spiegargli che l'Hiv non è un marchio d'infamia; che il virus si può tenere a bada anche per anni, anche per tutta la vita. E adesso è tardi.
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