SOLO PER FARTI SAPERE CHE SONO VIVA

foto di Simona Ghizzoni / Contrasto

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Il nostro viaggio tra le donne saharawi in quello strano luogo che è il Sahara Occidentale. Donne che hanno trascorso in carcere anche dieci anni per il loro attivismo anti-marocchino. E riescono a non odiare

“Posso vedere i tuoi capelli?”. Elghalia Djimi si prepara al servizio fotografico sistemandosi la melfah, il velo coloratissimo delle donne saharawi che scende dal capo ai piedi per difendere dall’aria sabbiosa. Io intravedo una ciocca insolitamente chiara e mi esce una domanda infantile, dopo diversi giorni accanto a questa signora bella e rassicurante che una sera ci ha regalato la magia di un tè nel deserto.
Lei non s’offende. Svela ciuffi radi, come bruciati. “Non ho più capelli”, e sorride come a tentare di proteggermi da qualcosa di tremendo. “Mi hanno torturata legandomi a testa in giù su un tavolaccio e versandomi addosso un liquido. Odorava d’alcol, medicina, urina. Mi hanno permesso di lavarmi solo tre mesi dopo: i miei capelli sono caduti a ciocche”. Sorride ancora: “Sono pronta per le foto”.

Raggiungendo El Ayun in pullman da Agadir, Marocco, i checkpoint militari restituiscono un’atmosfera di guerra a bassa tensione. I giornalisti qui non sono graditi: agenti in borghese ci seguono ogni minuto.
El Ayun dagli edifici arancio, con il suo deserto che si getta nell’Atlantico, è il capoluogo del Sahara Occidentale: i marocchini lo chiamano “le province del Sud” mentre i saharawi, gli abitanti originari, lo rivendicano come loro legittimo Stato.

Soukaina Jid Ahloud in una foto scattata durante la sua detenzione.
I campi di rifugiati saharawi in Algeria, dov’è stata rapita la cooperante italiana Rossella Urru con due colleghi spagnoli, sono solo metà della storia. L’altra metà si dipana nel silenzio del Sahara Occidentale, occupato nel ’75 dal governo di Rabat.
Dopo la guerra tra il Marocco e il Fronte Polisario, il movimento di liberazione del territorio, dal 1991 qui vige un cessate il fuoco sotto lo sguardo della missione Onu Minurso che doveva organizzare un referendum per l’indipendenza ma, dopo 21 anni, non è riuscita a compilare la lista dei votanti. E l’onnipresente polizia marocchina reprime i saharawi che inneggiano all’indipendenza.
Quelli come Elghalia Djimi, vicepresidente dell’associazione di vittime Asvdh, donna-simbolo della resistenza e incredibilmente priva di rabbia nonostante i suoi tre anni e 7 mesi nelle galere marocchine. Con gli occhi bendati, la minaccia costante di stupro e di morte, senza processo.
“Mi hanno sequestrata un giorno del 1987: arrivava in città una commissione Onu, io nascondevo nella calza una lettera per denunciare gli arresti arbitrari. In carcere mi hanno torturata con i fili elettrici e fatta sfilare nuda davanti ai soldati. Fino all’avvento di internet il mondo non ha saputo nulla di noi”.

Elghalia Djimi (al centro) con il marito Dafah e un'amica nel deserto appena fuori da El Ayun.

Dal ’75 a oggi sono state 4.500 le vittime saharawi di sparizioni forzate e detenzioni senza processo. Di 500 s’è persa ogni traccia: tra loro c’è la madre di Elghalia. Nel dicembre 2010, il Marocco ha ammesso di aver prelevato a forza 640 saharawi, ma secondo i familiari delle vittime non c’è stato alcun lavoro d’inchiesta, tanto meno l’ascolto dei superstiti.
I luoghi del terrore si chiamano Pccmi a El Ayun, Agdez e Kalaat Magouna nel sud del Marocco: le prigioni segrete del re Hassan II, con le fosse comuni che ancora rigurgitano cadaveri.
Lo sa bene Soukaina Jid Ahloud, 56 anni e occhi febbrili truccati di kajal, la matriarca delle ex prigioniere. La incontriamo a Smara, dopo tre ore nel deserto piatto con un autista che, all’arrivo, viene arrestato (e per fortuna rilasciato poche ore dopo) per averci messo in contatto con Soukaina.
“Sono stata detenuta dall’81 al ’91” ci gela lei. “La mia figlia minore è morta di stenti. Mi hanno arrestata ancora tempo dopo, con mio figlio: mi facevano camminare sulla sua schiena, lo sentivo soffrire e non potevo far nulla”.
Mostra una foto di lei scheletro, tesa nello sforzo di sorridere: “Me l’ha scattata un guardiano a Kalaat Magouna: lui era un uomo buono”. Soukaina piange, la voce trema. Dice che l’Onu finge di non vedere la barbarie che si consuma qui. La Minurso costa 63 milioni di dollari l’anno, impiega 510 uomini, ma non ha il mandato di proteggere i diritti umani.
Dei suoi 54 anni, Degja Lachgare ne ha trascorsi 11 in carcere, fino al ’91. E ancora nel 2009: unica donna del “gruppo dei 7”, i saharawi che hanno sfidato il Marocco visitando il Fronte Polisario in Algeria, è ora in libertà vigilata.
A Kalaat Magouna, quando lei aveva 22 anni e suo marito moriva in guerra lasciandola senza figli, il supplizio di Degja era preparare il pane, ogni notte, per i soldati marocchini. Per 10 anni. E ora che la osservo cucinare il pranzo e maneggiare con riguardo l’odorosa pagnotta cotta al forno, comprendo: fare il pane è il gesto più intimo, familiare, femminile. Degja ha dovuto ripeterlo all’infinito per i suoi aguzzini. 

Il diario di Mina Baalt e una sua foto da ragazza, prima della carcerazione.
“La minaccia della polizia alle ragazze saharawi è: vi svergineremo” riferisce la ventiduenne Najat El Baillal. “Come il nostro Sahara, sverginato nel ’75 dall’invasione marocchina”. Per lei il muro costruito dal Marocco nel deserto, 2.700 chilometri di barriera tra i saharawi profughi in Algeria e quelli rimasti qui, è uno stupro permanente.
Leila Dambar è un’Antigone moderna. Da un anno e mezzo chiede allo Stato marocchino l’autopsia sul cadavere del fratello Said, ucciso a 26 anni dalla polizia in circostanze oscure. “Chiediamo solo la verità”. Il volto del ragazzo copre una parete del soggiorno, in un’espressione tragicamente festosa. Il suo corpo giace ancora all’obitorio: le autorità negano l’autopsia e i fratelli di Leila hanno perso il lavoro, per la loro insistenza.
Con altri 20mila saharawi, Said aveva partecipato alla grande protesta popolare dell’ottobre 2010 a Gdeim Izik, antefatto della primavera araba. Un accampamento di tende fuori da El Ayun, per chiedere dignità sociale ed economica: l’8 novembre 2010 l’esercito marocchino lo smantella con le armi, i morti sono 13 e 200 gli arresti. 23 saharawi restano in carcere, senza giudizio.
Nella sua capanna in riva a un mare furioso, Eghalia Djimi offre i tre bicchierini rituali di tè: amaro come la vita, dolce come l’amore, soave come la morte. “Io non cerco vendetta” dice. “Vorrei solo che il Marocco accettasse il referendum, permettendo al nostro popolo di scegliere ciò che crede, che sia l’indipendenza, l’annessione al Marocco o l’autonomia proposta dal re Mohammed VI. Ho perso i capelli e parte della vista, ma in carcere ho incontrato mio marito Dafah, anche lui detenuto. Ci amiamo da allora, abbiamo cinque figli. E continuiamo a sorridere alla vita”.

da Io donna, 14 aprile 2012. Riproduzione testo e foto riservata.
I nostri viaggi in Sahara Occidentale e nei campi profughi saharawi in Algeria sono stati finanziati dalla fondazione americana The Aftermath Project, grazie a uno special grant vinto da Simona Ghizzoni nel 2011.





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