LA PULIZIA NON E' TUTTO




I miei amici italiani che vivono a New York da un pezzo dicono di non sopportarla più. Dicono che negli ultimi anni la City s’è fatta più inquinata, trafficata, rumorosa, caotica. All’inizio ti piace, ti dà un senso di giravolta che ti spinge a correre e a goderti tutto quello che il tempo concede. Anche se i musei chiudono alle cinque e mezza di pomeriggio, tranne un giorno a settimana, e i teatri hanno prezzi inarrivabili. E giunge un momento, all’improvviso, in cui non ne puoi più. New York, da allora in poi, ti rende solo nervoso e infastidito.
Sarà. Ma dalla mia grande finestra sull’East River, con i gabbiani che si sentono al di là della Avenue e il sole che finalmente s’è deciso a sostare, a me New York pare un posto che concede persino di rilassarsi. Una rarità, per una metropoli. Mai rilassata davvero a Milano, o a Londra, a Parigi. Al Cairo e a Roma, non ne parliamo.
Lo so, il senso di assoluta estraneità gioca questo scherzo: ti fa apparire i luoghi lontani, alieni alla tua routine quotidiana, come magici e capaci di porti in una condizione mentale speciale e finalmente priva di sforzi. Ma New York resta New York. Un microglobo lontano anche dalla sua America, dove la gente esce a bere e a divertirsi senza badare alla crisi economica, il grande mostro che è riuscito a incupire ogni anfratto delle nostre esistenze europee. Dove un lavoro lo trovi ancora, se sei disposto a lavorare. Dove nessuno fa caso a come vai in giro vestita.
Non intendo mitizzarla. Va esplorata meglio. Ma l’atmosfera, in superficie, è sempre quella giusta per rimettere in moto la testa e lo sguardo. Che poi la sostanza sia malata come dicono alcuni, spero di non rimanere così a lungo da sentirlo. 
Intanto mi godo il mio lavoro, il rave party che celebra i Kraftwerk al PS1 di Queens, il concerto di Zola Jesus al Guggenheim Museum, il sabato sera nel West Village e il sabato pomeriggio nell’East Village, le facce di Cindy Sherman al Moma, la biennale al Whitney, il festival punk alla Webster Hall, il reading della poetessa araba Nimah Ismail Nawwab a Chelsea, le cene dal mio amico Daniele nel suo fantastico ristorante a Hell’s Kitchen, le serate di minimal wave in un postaccio del Lower East Side che mi ricorda tanto lo Shelter fuori Milano nei suoi momenti migliori.
Finora, insomma, concordo con la sardonica scrittrice Fran Lebowitz quando diceva: “Andando via da New York, resti scioccato da quanto sia pulito il resto del mondo. La pulizia non è tutto”.

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