IL MIO SGUARDO ESTRANEO

La Photo of the Year secondo il World Press Photo.
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Nel maggio del 2008 stavo nella Striscia di Gaza e assistevo a una manifestazione dei giovani di Hamas (che allora era un partito amato dalla gente, la speranza di un cambiamento) a Karni, il vecchio valico delle merci. Si protestava contro Israele che aveva da poco sigillato i gazawi dentro una gabbia senza chiave. Gli uomini (nemmeno una donna tra i manifestanti) avanzavano urlando verso la buffer zone, l’area cuscinetto tra i campi spelacchiati e il muro, mentre i ragazzi, in piedi sui pick-up, mandavano dagli altoparlanti le note delle canzoni militaresche del partito islamico. 

Gli israeliani iniziavano a lanciare lacrimogeni per dissuadere la folla dal procedere. Io stavo molto indietro, al limite della strada, con l’amico giornalista Safwat che correva avanti e indietro: un po’ accanto a me, ansioso che stessi bene, e un po’ dal fotografo con cui lavoravo in quei giorni, il quale invece si era buttato dentro la folla e con lei avanzava verso il muro. 
Il rumore degli spari si confondeva con quello dei lacrimogeni. Un gruppo di uomini si staccava di scatto dalla massa informe, come la tessera di un puzzle che all’improvviso schizzasse via. Li vedevo correre verso la strada, verso i pick-up con le marce marziali ancora accese, verso di me. Erano uomini urlanti che portavano via un cadavere. Un ragazzo. Colpito. Ammazzato. Io per un attimo guardavo dentro i suoi occhi aperti.
Quel giorno ho corso per le strade di Gaza City mischiata a centinaia, forse a migliaia di persone che correvano dietro a un pick-up trasformato in carro funebre. Mi sono fermata sulla porta della casa della famiglia di quel ragazzo e, senza volerlo, sono stata trascinata dal flusso umano su per le scale strette. Il ragazzo morto era poco davanti a me, vedevo il suo sangue colare mentre affrontavo i gradini tentando di respirare.
Arrivavo su un terrazzo: una decina di donne in nero piangevano e strillavano, si gettavano sul cadavere, lo baciavano, lo accarezzavano. Gli uomini lo avevano posato su un tavolo e si erano fatti indietro, tutti insieme, in un repentino silenzio, come in un’opera teatrale in cui ognuno esegua con ordine e misura il proprio copione.
Io non volevo essere la’. Non volevo essere la comparsa stonata dentro un dolore che non era mio. Non volevo disturbarlo, quel dolore. Profanarlo. Banalizzarlo con il mio sguardo estraneo, con la mia pieta’ disorientata e generica. Ho troppo rispetto per la morte e dentro di me chiedevo perdono a quelle donne straziate, a quel ragazzo che non c’era piu’. Perdono per essere li’, l’aliena spettatrice della loro tragedia.
Era tanto che non ripensavo a quel giorno di maggio del 2008. Un giorno traumatico per me, essere umano. Un corto circuito nel mio essere e sentirmi giornalista e testimone.
Mi e’ tornato in mente quando ho visto la fotografia dello svedese Paul Hansen che ha vinto il World Press Photo 2013, il maggior riconoscimento mondiale per i fotografi. L’immagine del funerale di Suhaib Hijazi, due anni, e di suo fratello Muhammad, quattro anni non compiuti, ammazzati dentro la loro casa colpita da un missile israeliano durante l’ultima offensiva contro la Striscia di Gaza, nel novembre del 2012.
E’ giusto, eticamente e giornalisticamente, mostrare il dramma dei palestinesi di Gaza. Ma quei bambini morti in primo piano sono troppo. E sento che il mio, il nostro sguardo, non e' capace di accarezzarli ma li brutalizza ancora, e ancora. Per poi gettarli nel fosso dove si rimestano e confondono tutte le immagini di morte, di dolore, di tragedia rimandate dai media da ogni parte del mondo. E che nel fosso finiscono per perdere ogni realtà, colore e senso. 

Commenti

  1. Non trovo le parole per commentare il tuo articolo, ma sentivo il bisogno di lasciarti un cenno, un grazie per aver condiviso questa riflessione, una carezza ai profughi di guerra, un fiore alle vittime di questa grande porcata che è la guerra.

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  2. Grazie a te, Cri. La tentazione del cinismo, nel mio mestiere, e' sempre forte. Ma va combattuta, a mio avviso

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  3. Emanuela,
    sono d' accordo con te riguardo i limiti narrativi oltre i quali è inutile andare, basta molto meno per raccontare un corteo funebre di due bimbi e in questo anche la fotografia dispone di figure retoriche.
    Ricordo sempre con stupore le foto di Masturzo premiate nel 2009 che raccontavano la protesta notturna degli iraniani sui tetti di Teheran; non una bastonata, non una goccia di sangue venne mostrata.

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  4. Ormai credo sia difficile per tutti noi guardare con occhi non inquinati da quello che siamo abituati a guardare. Io ho tanta sete di nuovi linguaggi: nel giornalismo, nella fotografia, in tutto

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