NELLA VALLE DELLA CANNABIS


Foto di Jordi Pizarro

L’aria di Issaguen è un impasto di polvere densa e tensione impalpabile. “E quando tu, forestiero, cammini solo per strada, è un assedio di gente che vuole venderti hashish”. Il fotografo spagnolo Jordi Pizarro, autore delle immagini di queste pagine, conosce bene il paesone rurale nel nord del Marocco. E non lo ama. Vi ha transitato parecchio, negli ultimi tre anni. E’ stato fermato dalla polizia, bloccato per ore, le card con le foto sequestrate. Fino al cortese invito a tornarsene a casa. Perché, a differenza di molti europei che passano di qui, lui non puntava alla specialità del luogo ma ai ritratti di questa montagnosa Jamaica d’Africa che ha paesaggi da sballo. Letteralmente: “Partendo da Chefchaouen, cento chilometri a sud di Tangeri” racconta “per le due ore d’auto verso Issaguen non incontri che campi di cannabis”. 

Nella regione del Rif, fra il ruvido ondulare di pietre, valli e vette che sfiorano i 2.500 metri, le piantagioni di canapa indiana elargiscono il 42 per cento della produzione globale di hashish e l’80 per cento di quella fumata da 77 milioni di europei, 3 milioni dei quali accendono un joint almeno una volta al giorno, dice il rapporto 2013 dell’Osservatorio Europeo su droghe e tossicodipendenze. Un consumo che, a differenza di cocaina ed eroina globalmente in calo di gradimento, ignora ogni crisi. 
La cannabis in Marocco è illegale, sebbene cresca prospera sotto gli occhi di tutti. E da tempo gli amanti di hashish, marijuana e kif non si fanno mancare un pellegrinaggio fra questi pendii: a Chefchaouen convergono turisti d’ogni età e nazione, zaino in spalla e canna in bocca, in cerca di stordimenti romantici alla Tè nel deserto o di intensità visionarie nell’”Interzona” di William Burroughs. A Issaguen, invece, stazionano le mafie: grandi e piccole, locali e straniere, che acquistano dai contadini e, via mare verso la Spagna, aggrediscono i mercati internazionali, Italia compresa. 


Secondo l’International Narcotics Control Board, il 72 per cento della cannabis sequestrata nel mondo nel 2011 proveniva da quest’area. Le distese verdi del Rif sono fabbriche da 10 miliardi di dollari l’anno, pari al 10 per cento dell’intera economia marocchina: la stima è del Network per l’uso industriale e medico della marijuana (Cmumik), un collettivo locale di attivisti, medici e studenti che da tempo si batte per legalizzare la coltivazione e il consumo nel Paese. “Porterebbe benefici soprattutto ai piccoli agricoltori” sostiene Chakib el-Khayari, volto noto della società civile marocchina. Nel 2009 era stato incarcerato per vilipendio allo Stato: aveva denunciato degli ufficiali di polizia di complicità con i signori della droga. La sua campagna per la cannabis libera è soprattutto a favore degli agricoltori: “Per paura di essere arrestati, stanno alla larga dalle autorità” sostiene “così molti non hanno documenti né assistenza dallo Stato, e restano ostaggio dei trafficanti”.
Secondo il ministero degli Interni marocchino, circa 760 mila contadini dipendono dal raccolto della canapa. Da ogni ettaro ricavano 5-6 chili d’hashish l’anno: gli intermediari pagano dai 10mila ai 15mila dirham al chilo (900-1.300 euro), rivendendo ad almeno dieci volte tanto. Eppure la piccola cifra permette a tanti agricoltori di superare la soglia di povertà. “Non rinunciamo a questo commercio, è l’unica cosa che funzioni qui” dice uno di loro. “Il governo ci lasci in pace”.
E’ recalcitrante, la gente del Rif. Da sempre un popolo a parte: gli antenati berberi hanno resistito a ogni invasore, dagli arabi agli spagnoli fino allo stesso governo marocchino. Una “terra dell’insolenza”, storicamente abbandonata da re e politici che però oggi non possono più chiudere un occhio: il Marocco ha ricevuto 28 milioni di euro dall’Unione Europea per sradicare le piantagioni di cannabis e altri 43 milioni di dollari dagli Stati Uniti per aiutare gli agricoltori a riconvertire i campi.
Dal 2005, gli incendi statali hanno distrutto il 60 per cento delle coltivazioni, riducendole a 47 mila ettari. Ma il piano fa acqua: “Il kif non ti uccide, la fame sì” sentenziava in un’intervista a Middle East Online Aberrahmane Hamoudani, ex sindaco di Issaguen. E spiegava che il clima è troppo rigido per altri semi e non c’è abbastanza erba per il bestiame. Dunque, che canapa sia. Così da dicembre, su pressione del collettivo Cmumik, si discute una proposta di legge per autorizzare la coltivazione di canapa in certe aree del Rif. Sarà lo Stato ad acquistarla dai contadini per usi terapeutici e industriali, attraverso un’agenzia di controllo. Funzionerà?


I trafficanti attendono, e intanto studiano nuove strategie per continuare a traghettare il prezioso raccolto in Spagna. Jordi Pizarro ha seguito le operazioni della Guardia Civil e della Polizia tributaria iberiche, mentre nel porto di Algeciras setacciano auto, camion di meloni e pance di giovani spacciatori: nel 2012, le autorità spagnole hanno sequestrato quasi 330 tonnellate di hashish dal Marocco, il 74 per cento di tutta quella scovata in Europa quell’anno. “Le mafie si adattano” osserva Pizarro “invece dei motoscafi usano i pescherecci, mimetizzandosi tra la gente comune”. Inoltre, la crisi economica in Spagna ha ridotto il personale di polizia alle frontiere. Ma i contadini del Rif non lo sanno: accarezzano le loro piante salva-vita, e per il raccolto di settembre c’è ancora tempo.

Da Io Donna, 15 marzo 2014

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