RWANDA: IL GENOCIDIO E LA CATTIVA MEMORIA


“Ricordo quell’aprile maledetto come se fosse oggi, con le immagini dei cadaveri che riempivano i fiumi d’acqua rossa per il sangue delle ferite inferte con i machete... Alcune notti, mi si ripresentano ancora davanti agli occhi”.
Françoise Kankindi era in Italia il 6 aprile del 1994, quando l’aereo del presidente rwandese Habyarimana fu abbattuto da un missile: l’evento che scatenò il genocidio nel piccolo Stato africano, l’etnia hutu contro quella tutsi, oltre un milione di morti in cento giorni.
Nata da una famiglia rwandese tutsi in esilio in Burundi (“perché le persecuzioni iniziarono ben prima del ’94”, spiega), Françoise avrebbe voluto combattere al fianco della sua gente: “Ma ero troppo magra e rifiutarono di arruolarmi, così decisi di studiare: venni a Milano e mi iscrissi alla facoltà di Economia e commercio”. Tranne i parenti più stretti rimasti in Burundi, lei nel genocidio ha perso tutta la famiglia. Oggi ha 44 anni, abita a Roma con il marito superstite di quei cento giorni di orrore ed è presidente dell’associazione non profit Bene-Rwanda, con la quale sta organizzando iniziative a Roma, Genova e Milano per il ventennale del genocidio. In questi giorni esce in libreria il suo Rwanda, la cattiva memoria (Infinito edizioni), scritto con Daniele Scaglione e la prefazione di don Luigi Ciotti: un volume che intreccia ricordi personali e puntuale ricostruzione di una tragedia che, secondo Françoise, resta tuttora fraintesa nelle sue radici.

Perché la memoria sul genocidio in Rwanda è “cattiva”?
Innanzitutto perché si pensa che la strage sia arrivata all’improvviso: invece i preparativi erano sotto gli occhi di tutti da tempo, addirittura preannunciati alla radio, e i massacri contro i tutsi erano iniziati già nel 1959. Per questo la mia famiglia, come tante altre, era dovuta fuggire all’estero. E poi perché la propaganda francese ha fatto credere che la responsabilità fosse degli stessi tutsi, che fossero stati loro ad abbattere l’aereo del presidente hutu il 6 aprile del ’94, meritandosi il genocidio. Invece questo è falso: per mantenere il potere, gli hutu volevano eliminare la minoranza tutsi. Infine, c’è stato il silenzio dell’Onu e della comunità internazionale, che non hanno mosso un dito per fermare il sangue. Se dobbiamo ancora scrivere e parlare di Rwanda, è proprio per capire come sia stato possibile che il mondo non abbia voluto vedere.
Come ha vissuto gli eventi del ’94 da Milano, dove allora si trovava?
Pensavo alla mia gente, a mio fratello che combatteva in Rwanda rischiando la vita. Mi incontravo con altri membri della comunità rwandese in Italia, ma purtroppo le uniche informazioni che arrivavano erano dei media francesi, che riportavano la versione falsata degli estremisti hutu. I giornali italiani, allora, non ci hanno mai interpellati per andare più a fondo, e molti italiani pensavano che in Rwanda ci fossero solo dei selvaggi che s’ammazzavano tra loro: c’è una banalizzazione, ancora oggi, di ciò che accade in Africa. Si pensa che ciò che accade in Darfur, in Mali, in Repubblica Centrafricana sia solo scontro tribale, invece la responsabilità è anche dei governi occidentali.
Quando è andata in Rwanda per la prima volta?
Nel ’95: i miei genitori erano finalmente rientrati dall’esilio, e io sono andata a trovarli a Kigali nella loro casa fantasma, crivellata di proiettili, con i muri sporchi di sangue. Tutto parlava ancora della violenza subìta. Mi sentivo a disagio per strada, sull’autobus: i tutsi erano stati sterminati, i pochi che c’erano in giro erano quelli, come noi, venuti da fuori, e gli sguardi degli altri sembravano chiederti “ma come hai fatto a salvarti dal machete?”. Io pensavo di stabilirmi in Rwanda, di contribuire alla costruzione del mio Paese, ma mia madre mi disse di tornare in Italia e finire l’università, perché ancora non era il posto giusto in cui vivere. In Italia ho conosciuto mio marito Eric, che aveva combattuto in Rwanda ed è stato l’unico sopravvissuto della sua famiglia: siamo rimasti a Roma, oggi abbiamo un bimbo di 8 anni e torniamo spesso in Rwanda, ogni volta visitando un luogo della memoria. Con il progetto concreto di rientrare definitivamente.
Il Rwanda è davvero riuscito a gettarsi alle spalle il genocidio?

Il Rwanda è riuscito a rialzarsi, tutto funziona bene quasi come in Svizzera e noi ne andiamo davvero fieri. Il nostro Parlamento ha il record di partecipazione femminile, e tutti hanno una grande voglia di fare, di mettersi in gioco. Mio figlio, la scorsa estate, pensava di trovare l’Africa della fame e della povertà di cui sente parlare a scuola, invece si è stupito della pulizia delle città e mi ha detto: “Mamma, perché non facciamo venire i rwandesi a Roma a riparare le buche nelle strade?”. Quanto alle divisioni etniche, ognuno di noi mantiene la propria identità hutu o tutsi, ma oggi tutti abbiamo imparato che abbiamo uguali diritti, e che il vicino va rispettato in quanto essere umano. Era questo, l’insegnamento che c’era mancato.

Da Donna Moderna, 2 aprile 2014

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