"I 43 STUDENTI MESSICANI NON SONO MORTI"


Da vent’anni, Leticia Gutiérrez Valderrama cammina al fianco di un popolo in fuga: 400 mila uomini e donne che, ogni anno, si nascondono nei vagoni della “bestia”, il treno merci che attraversa tutto il Messico verso gli Stati Uniti. Quasi cinquemila chilometri dal confine nord del Guatemala fino al sueño americano, che questa massa di migranti dal Centro America percorre per scappare da povertà e violenze, ritrovandosi su un tragitto lastricato da trafficanti di esseri umani e da polizia corrotta: secondo le stime della società civile messicana, in ventimila vengono sequestrati dai cartelli criminali, che dalla tratta di uomini ricavano la loro terza fonte di reddito, dopo armi e droga.
Nell’agosto del 2010, il mondo è inorridito di fronte alla foto di 72 cadaveri trovati in una fattoria a San Fernando, nello Stato di Tamaulipas, ma la brutalità che scuote il Messico è presto ripiombata nel cono d’ombra delle cronache. Fino a oggi, con la scomparsa dei 43 studenti a Iguala, nello Stato di Guerrero, sulla cui sorte non s’è ancora fatta luce.

Sarebbero stati rapiti dalla polizia su ordine del sindaco locale mentre andavano a una manifestazione, e consegnati a una banda di narcos che li ha uccisi, bruciandone i corpi e disperdendone i resti tra le acque di un fiume. Un evento scioccante che ricorda le inquietanti collusioni, in Messico, tra istituzioni e mafie: una vergogna che Leticia Gutiérrez Valderrama non perde occasione di denunciare, anche in sedi internazionali.
Nata a Guadalajara nel 1968, questa donna dall’aria mite che cela uno spirito granitico
oggi dirige la Missione Scalabriniana per i migranti e i rifugiati in Messico, proteggendo e assistendo legalmente le vittime di sequestri, stupri ed estorsioni, oltre agli attivisti della società civile nel mirino dei narcos.
“E’ un crimine di Stato” dichiara Leticia sulla tragedia dei 43 studenti. “Finché non saranno trovate le spoglie, continueremo a considerarli desaparecidos e non morti, perché si continui a indagare. La loro scomparsa è avvenuta poco dopo che il vescovo Raúl Vera López aveva denunciato alla Commissione interamericana per i Diritti umani i soprusi delle autorità nel nostro Paese, e di certo non si tratta di una coincidenza. Ora appoggiamo le famiglie dei 43 studenti che chiedono la verità: è sempre più chiaro che lo Stato messicano è il primo responsabile della mancata tutela non solo dei migranti, ma dei suoi stessi cittadini”.
Anche lei riceve costanti minacce, eppure riesce a parlarne con un sorriso semplice e disarmante: “Fa parte del mio lavoro”, dice. Con il suo impegno, ha promosso una rete capillare di case che offrono accoglienza lungo l’intero corridoio migratorio messicano.
Sorella Leticia in questi giorni è in Italia per partecipare alla Carovana per i diritti dei migranti, per la dignità e la giustizia che, partita il 22 novembre da Lampedusa, sta percorrendo oltre duemila chilometri verso nord in solidarietà con la Carovana delle donne centroamericane: madri, mogli e sorelle che, da dieci anni, in questo periodo arrivano in Messico da El Salvador, Guatemala, Honduras e Nicaragua dirette verso il confine statunitense sulle tracce dei parenti desaparecidos lungo il più grande corridoio migratorio del mondo.
La Carovana italiana si concluderà il 6 dicembre a Torino, in piazza Castello, e intanto farà tappa giovedì 4 a Milano per due incontri promossi da Amnesty International e da Soleterre-Strategie di Pace Onlus: alle 15 alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale, via Conservatorio 7, e alle 19 alla Casa dei Diritti in via De Amicis 10. Due occasioni per denunciare lo sfruttamento di cui sono vittime i migranti, in Messico come in Italia. Fra i relatori, oltre a padre Alejandro Solalinde, l’eroico direttore del centro migranti Hermanos en el Camino di Ixtepec, Messico, ci sarà anche Leticia Gutiérrez Valderrama.


Sorella Leticia, com’è maturata in lei la decisione di dedicare la vita ai migranti?
La mia famiglia non era religiosa: sono l’ottava di 9 figli e ho perso mio padre a 7 anni. Nonostante le difficoltà economiche, mia madre ci ha incoraggiati a studiare: io mi sono laureata in Commercio internazionale e poi ho lavorato all’aeroporto di Guadalajara. Ma sentivo di avere qualcosa di più da offrire, finché un incontro ha segnato la mia vita: due ragazzi tossicodipendenti, che mi hanno raccontato quanto fossero discriminati. Sebbene già frequentassi la parrocchia, è stato quello il mio primo vero incontro con Dio. Così, dal 1993 mi sono impegnata in una comunità per tossicodipendenti, e ho lasciato il lavoro per vivere con loro. Fino all’incontro con le sorelle scalabriniane.
 

Un’altra casualità?
Sì, ma che ha toccato le mie corde più profonde. Nell’agosto del ’95, sono stata invitata a conoscere la loro missione alla frontiera di Tijuana. Vi ho trascorso un mese intero pensando continuamente ai miei 4 fratelli emigrati negli Stati Uniti. Non mi avevano mai raccontato il loro viaggio, è una reticenza tipica nelle famiglie messicane: ci si vergogna della propria esperienza migratoria, la si vuole dimenticare. A Tijuana ho visto con i miei occhi la rete criminale che prospera attorno al dramma dei migranti. Ho incontrato donne costrette a prostituirsi, e ho visto il muro che separa il Messico dagli Stati Uniti, penetrando fino al mare. Il mare è di tutti, pensavo, come si può violarlo con una barriera? Nell’ottobre del ’95 sono diventata una religiosa scalabriniana.
 

Per sei anni, lei ha diretto la Dimensione pastorale della Mobilità umana, un’organizzazione religiosa di riferimento per la Chiesa messicana. Quali obiettivi è riuscita a raggiungere?
Quando ho assunto la direzione, le case di accoglienza per migranti erano 32 in tutto il Messico: la mia prima esigenza è stata metterle tutte in comunicazione. La tragedia era troppo forte, tenere le case isolate significava isolare i migranti e noi. Una dei nostri, solo per aver dato da mangiare a un migrante, era stata incarcerata: non potevamo permettere simili violazioni. Abbiamo lanciato una campagna per sensibilizzare la Chiesa e la società sulla necessità di accompagnare questi uomini e donne e di essere presenti lungo il loro cammino. Oggi le case sono 66: una barriera umanitaria lungo l’intera strada della migrazione.


Le donne, con i minori, sono le più vulnerabili nel tragitto: violenze sessuali, sequestri per gettarle nel mercato della prostituzione... Da donna, c’è stato un incontro che le sia rimasto nel cuore?
Io penso che donne e uomini siano uguali, in questo dolore. Però certo, tante donne mi sono rimaste nel cuore, come un’honduregna nella nostra casa di Saltillo che si vestiva da uomo: era arrivata fino a nordest nascondendosi così e non pronunciando mai una parola, per non essere scoperta. Aveva quasi disimparato a parlare... E ricordo 6 donne che, nel 2011, ho accompagnato a testimoniare davanti a Felipe González della Commissione interamericana per i Diritti umani, insieme a padre Alejandro Solalinde (fondatore del rifugio “Hermanos en el camino” a Ciudad Ixtepec, nel sud del Messico, ndr). González ascoltò la moglie di un guatemalteco desaparecido, che dopo un anno non sapeva nulla di lui, e una giovane honduregna che raccontò del suo sequestro lungo sei mesi, di come i narcos l’avessero ridotta a schiava, violentandola e costringendola a guardare mentre uccidevano un gruppo di uomini per mostrare a lei e alle altre la loro sorte, se avessero tentato di fuggire. González era turbato e addolorato, e infatti nel suo rapporto ha definito “tragedia umanitaria” quella che si consuma in Messico.
 

La Missione Scalabriniana per i migranti e i rifugiati, che oggi lei dirige, protegge anche chi lavora in difesa di questa popolazione. Quali ostacoli incontrate?
Non è automatico che le autorità riconoscano come vittime chi ha subìto ogni genere di delitto, né che quindi concedano un visto umanitario: secondo una statistica dei Padri Gesuiti, solo 170 centroamericani l’anno ottengono asilo in Messico. Una cifra che è niente, di fronte ai 400mila che transitano: di tutti quelli che incontriamo, posso assicurare che il 40% avrebbe i requisiti per l’asilo. Li trasferiamo in località protette e forniamo accompagnamento al lavoro, appoggio psicologico e spirituale. E chi lavora con loro condivide un’identica condizione: minacce di morte, attacchi del crimine, autoesilio. In passato, i criminali tentavano di corromperci con il denaro: di fronte al nostro no deciso hanno smesso, poiché una forma di superstizione li fermava dal mettersi contro delle persone di Chiesa. Ho visto sorelle di 70, 80 anni fronteggiare a testa alta i boss con l’unica arma della frase “Do da mangiare a un migrante perché in lui vedo Gesù”. Oggi è diverso: chi difende le vittime dei sequestri corre molti rischi.
 

Come la giornalista María Elizabeth Macías Castro, scalabriniana laica, scomparsa il 22 settembre 2011 e trovata mutilata due giorni dopo. Sorella Leticia, le non convive con la paura?
Ho avuto paura una volta sola, l’anno scorso, in agosto. Seguivo il caso di un giovane rapito nello Stato di Tamaulipas ed ero in contatto con la madre che, dagli Stati Uniti, tentava di mandare i 5.000 dollari del riscatto. Durante la commemorazione della strage di San Fernando, due uomini vestiti di rosso si sono avvicinati, rivolgendomi una frase in apparenza banale che invece era un messaggio in codice: appartenevano al cartello del Golfo, sapevano che mi occupavo di quel sequestro e mi tenevano d’occhio. Il sacerdote che era con me mi ha esortata a fuggire: “Parliamo del cartello del Golfo, non di delinquenti qualsiasi”. Mi sentii paralizzata, proprio io che, quando accompagno altre persone in pericolo, so decidere rapidamente e lucidamente nelle emergenze. Invece quel giorno mi bloccai: nella mia testa risuonava la voce della madre che s’indebitava per liberare il figlio e contava su di me. Era per lei che avevo paura. Ma ho continuato a seguire la trattativa: oggi quella madre e suo figlio vivono insieme negli Stati Uniti, e alla mia paura io non penso più.
 

Il pericolo arriva anche dalle autorità. Nel 2008, padre Alejandro Solalinde è stato aggredito da ufficiali municipali e poliziotti che minacciavano di incendiare la sua casa-rifugio perché un migrante, che nemmeno abitava da lui, aveva commesso uno stupro...
Lo ricordo bene. Il crimine organizzato e le autorità corrotte sono la stessa cosa. Anni fa abbiamo incontrato alti funzionari ma, invece di ascoltarci, ci hanno dato dei bugiardi, facendoci apparire come complici del traffico di uomini e negando un rapporto della Commissione nazionale dei Diritti umani che nel 2009 parlava di oltre 9.000 sequestri di migranti in 6 mesi. Si è dovuti arrivare al massacro di San Fernando, ai corpi mutilati di Cadereyta, alle fosse comuni scoperte negli Stati di Jalisco, Durango, Morelos, Coahuila, perché le autorità aprissero gli occhi.
 

Lei e la sua organizzazione non avete fatto sconti al governo messicano, denunciando pubblicamente la sua inerzia. Che cosa avete ottenuto?
La nostra situazione è ancora critica. Spesso i pubblici ministeri, se accolgono la denuncia dei migranti, non riconoscono i colpevoli come membri dei cartelli e li condannano solo a una piccola multa. È una violazione della Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale, che espone i migranti a gravi pericoli e trasforma i loro difensori in nemici diretti non solo dei narcos, ma anche delle autorità colluse. Eppure in Messico, dal 2012, abbiamo un Meccanismo di difesa dei migranti e dei giornalisti che dovrebbe garantire protezione ma in realtà non funziona, poiché il fondo di 200 milioni di pesos è bloccato. Penso a un avvocato che aveva subìto minacce e aggressioni, e sua figlia era stata vittima di un tentato omicidio. Quando lui si è autoesiliato in un luogo segreto, solo dopo 20 giorni le autorità lo hanno contattato, su nostra pressione, per proteggerlo. Noi chiediamo che il tema migratorio non sia trattato come un problema di sicurezza nazionale, bensì come una protezione integrale, una promozione umana. È un problema del mondo intero: la migrazione è conseguenza di politiche economiche che emarginano un gran numero di persone. Dovremmo tutti sentire una responsabilità.
 

La Chiesa messicana, secondo lei, dovrebbe fare di più?
La maggioranza della Chiesa, in quanto popolo di Dio, sta donando la vita per i migranti: sacerdoti, religiosi, laici, alcuni vescovi. C’è però un altro settore della Chiesa con una visione diversa, d’accordo con le politiche governative, e noi diciamo no a questa Chiesa.
 

“Abbiamo perso il senso della solidarietà fraterna. Siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza”, ha detto Papa Francesco a Lampedusa, l’8 luglio del 2013. E nella Giornata Mondiale del migrante e del rifugiato, il 19 gennaio scorso, ha ringraziato anche voi, “coloro che lavorano con i migranti per accoglierli e accompagnarli”. Lei ha incontrato a Roma il Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e itineranti: ha portato un messaggio per il Pontefice?
L’ho invitato a venire in Messico, e gli ho chiesto di esortare tutta la Chiesa affinché dia una risposta a questa emergenza. Il Papa si è impegnato pubblicamente, come pastore e come uomo, a stare vicino alle persone costrette a migrare, contro politiche economiche e sociali che le lasciano prive di protezione. Per questo, per il suo zelo di pastore, vorrei dirgli che nel nostro lato del mondo lui ha altri pastori che dovrebbero dare una risposta a questo popolo che ne ha bisogno.

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