8 MARZO PER CHI?

Scrivo di donne tutti i giorni, considero la mimosa un fiore bruttino, decisamente minore, e non mi piace l'idea che la donna sia una specie di categoria sociale cui dedicare una giornata internazionale. Ma non mi profondero', come oggi stanno facendo in molte, sull'inutilità/ipocrisia dell'8 marzo. L'8 marzo preferisco usarlo per fare informazione, che credo non sia mai abbastanza.
Questo il mio speciale per Io donna del Corriere della Sera.

«Nell’Ottocento la sfida morale cruciale fu lo schiavismo; nel Novecento la battaglia contro il totalitarismo. Noi crediamo che nel nuovo secolo la sfida morale fondamentale sarà la lotta per l’uguaglianza fra i sessi in tutto il mondo». Nel libro Half the Sky, la coppia di giornalisti premi Pulitzer Nicholas Kristof e Sheryl WuDunn danno questo lapidario ed efficace suggerimento sulla direzione verso cui i decision makers mondiali dovrebbero puntare lo sguardo. 
Per quanto l’espressione “sesso debole” ci faccia l’effetto di un gessetto che stride su una lavagna, basta dare un’occhiata ai dati sulla salute delle donne nel mondo, sulla loro partecipazione al mercato del lavoro, sul livello d’istruzione, per concludere che questa debolezza corrisponde ancora a verità. E se nei Paesi del cosiddetto “primo mondo” la fragilità femminile sta scritta, oltre che nelle statistiche sulla violenza domestica, in un’inspiegabile subalternità economica (ancora non è dato capire perché le donne europee, giusto per fare un esempio, a parità di istruzione e di mansioni guadagnino mediamente il 16,4 per cento in meno degli uomini), in molti Paesi in via di sviluppo ci sono aree in cui la discriminazione delle donne assume abnormi connotati di oppressione socialmente tollerata, fino ad autentici crimini. 

Abbiamo scelto di inoltrarci dentro 6 di queste “zone d’ombra”, le più dure da illuminare. Che testimoniano come la sfida morale ricordata dai due premi Pulitzer vada oltre una questione di parità di genere, per diventare una battaglia di tutti quanti. Quella per i diritti umani.


Foto Corbis
1) L’ISTRUZIONE NEGATA
“Le persone mi chiedono perché l’istruzione sia importante soprattutto per le ragazze. La mia risposta è sempre la stessa: dal Corano ho imparato le parole iqra, che significa “leggi”, e nun wal-qalam, che significa “con la penna”. Come ho detto anche l’anno scorso alle Nazioni Unite, un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo”. Così parlava Malala Yousafzai lo scorso dicembre, ritirando il Premio Nobel per la pace che le è stato conferito proprio per il suo impegno a favore dell’istruzione delle bambine. Nell’ottobre del 2012, quando aveva solo 15 anni e tornava a casa da scuola, la piccola pachistana fu attaccata e quasi uccisa dai talebani che nella città di Mingora, nella valle dello Swat, avevano emanato un editto per proibire alle donne di andare a scuola. Da allora Malala è il volto di tutte le ragazze del mondo per le quali studiare è una guerra quotidiana.

Quante e dove
Due terzi dei 774 milioni di adulti analfabeti nel mondo sono donne. Tra 121 milioni di bambini attualmente in età scolare che però non hanno la possibilità di studiare, 65 milioni (circa il 54%) sono femmine. E solo il 30% delle ragazze, a livello globale, arriva a frequentare anche la scuola secondaria. Secondo il Database dell’ineguaglianza globale nell’istruzione (Wide) elaborato dall’Unesco, la situazione più drammatica si registra in Somalia, dove il 98% delle ragazze tra i 7 e i 16 anni non va a scuola. Seguono il Niger (con una percentuale del 78%) e altri Paesi africani come Liberia (77%), Mali (75%), Burkina Faso (71%), Guinea (68%). Mentre in Asia sono il Pakistan (62%) e lo Yemen (58%) i luoghi più ostili per una ragazza che desideri studiare.

Perché
Povertà e tradizioni. In oltre 100 Paesi del mondo, infatti, la scuola non è gratuita. E anche laddove lo è, prevede comunque una spesa per libri e divise. In molte aree rurali dell’Africa subsahariana le famiglie preferiscono quindi mandare a scuola il figlio maschio poiché sarà lui a restare in famiglia, mentre la femmina andrà ad abitare presso i parenti del marito. Ed è ancora pervicace lo stereotipo per cui il posto di una donna è la casa, tra figli, cucina e pulizie. Talvolta, tuttavia, gli ostacoli all’istruzione di una ragazza sono più banali: un tragitto troppo lungo e impervio per raggiungere la scuola più vicina, oppure l’assenza di toilette riservate alle ragazze dentro l’edificio scolastico. L’esclusione delle bambine dal sistema educativo non è solo la negazione di un diritto umano, ma una grave ipoteca sul futuro di una società: la ragazza istruita, infatti, sarà in grado di evitare un matrimonio precoce, avrà meno probabilità di subire violenze sessuali e di contrarre il virus dell’Hiv. Non solo: porterà benefici all’intera comunità, perché riuscirà a partecipare alle attività economiche. Non è un caso che le regioni del pianeta in cui si concentra l’assoluta maggioranza di bambine private dell’istruzione (l’83%) siano quelle che faticano a superare l’estrema indigenza: l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e alcune aree dell’Estremo Oriente.

Come agire
Da due anni e mezzo, Plan International porta avanti la campagna Because I am a girl, sostenendo il diritto femminile allo studio in 25 Paesi africani, 14 asiatici e 13 in America latina. Con 120 euro l’anno, si può sostenere a distanza il percorso scolastico di una ragazza.
Per informazioni: 039/6848701, info@plan-italia-org


Foto Corbis
2) LE SPOSE BAMBINE
“Mi hanno data a mio marito quando ero bambina e non ricordo nulla perché ero davvero troppo piccola. È stato mio marito a crescermi”. Kanas, una ragazza etiope che oggi ha 18 anni, si è raccontata con queste parole alla fotografa americana Stephanie Sinclair, autrice di un ampio lavoro per immagini e video in vari Paesi del mondo, che è diventato la mostra itinerante Too Young to Wed (“Troppo giovane per sposarsi”) sostenuta dall’Onu per sensibilizzare su un problema globale che è la radice di un circolo vizioso di degrado e sottosviluppo. Le ragazze date in spose da piccole abbandonano la scuola, hanno gravidanze precoci che le espongono a seri rischi sanitari e restano escluse dalla vita economica e sociale delle loro comunità.

Quante e dove
Secondo l’Unicef, nei Paesi in via di sviluppo circa 700 milioni di donne oggi adulte sono diventate mogli prima dei 18 anni e, di queste, una su tre ha contratto matrimonio prima dei 15. Ogni anno la gravidanza o il parto uccidono 70 mila adolescenti il cui corpo è troppo acerbo per generare nuove vite e dal 2003 a oggi c’è stato solo un leggero decremento, pari al 9%, dei matrimoni precoci. L’Unicef ha elaborato una statistica mondiale considerando donne che oggi hanno dai 20 ai 24 anni e che si sono sposate prima dei 18: in cima alla triste classifica c’è il Niger, dove il 76% delle 20-24enni ha subito un matrimonio precoce, seguito dalla Repubblica Centrafricana (68%), dal Chad (68%), dal Bangladesh (65%), dal Mali (55%) e dal Sud Sudan (52%). L’India, che ha una percentuale di spose bambine del 47%, detiene però il primato in termini assoluti, con oltre 10 milioni di donne sposate prima dei 15 anni. Seguono il Bangladesh (2 milioni e 300 mila), la Nigeria (oltre un milione e 100 mila), il Brasile (877 mila), l’Etiopia (673 mila) e il Pakistan (600 mila). Circa la metà delle giovanissime spose vive in Asia meridionale, e una su tre in India, dove si è verificato un calo delle bambine accasate prima dei 15 anni (dal 23.5% al 18.2%) ma nel frattempo sono aumentati i matrimoni delle ragazze tra i 15 e i 18 anni (dal 26.7% al 29.2%). In Africa subsahariana, l’Unicef prevede che il numero delle spose bambine raddoppierà entro il 2050, e sarà la Nigeria a registrare il numero assoluto più alto nel continente.

Perché
Fattori economici si intersecano a tradizioni di subalternità femminili. Nelle aree più povere del pianeta, far sposare la propria bambina significa ricevere una dote dalla famiglia del marito, e laddove le figlie femmine non vengono mandate a scuola, è quasi naturale che diventino mogli da giovanissime, anche per la convinzione dei genitori di difendere in questo modo il loro onore. L’istruzione è un indicatore chiave: in Nigeria, per esempio, l’82% delle donne analfabete si sono sposate da minorenni.

Come agire
Girls Not Brides (“Ragazze, non spose”) è una campagna globale con base a Londra che riunisce oltre 400 organizzazioni della società civile impegnate a sradicare la pratica dei matrimoni precoci in vari Paesi. E l’emergenza di oggi è l’aumento delle spose bambine tra le famiglie siriane rifugiate in Giordania, che in questo modo cercano di ridurre il proprio carico economico e di proteggere le figlie dalle violenze sessuali.
Per informazioni: info@GirlsNotBrides.org


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3) LA MORTALITÀ MATERNO-INFANTILE
Misone sa di essere fortuna: “Ho avuto due parti dilanianti, con doglie interminabili”, racconta, “e la levatrice sapeva solo ripetere: siediti. Avevo emorragie e i miei figli soffrivano di forti dolori allo stomaco nei primi due mesi di vita. Finché il terzo parto, che era gemellare, mi provocò una grave anemia”.  Misone vive nel distretto di Konso, uno dei più suggestivi dell’Etiopia meridionale ma anche tra i più poveri e privi di strutture sanitarie. La fortuna della donna è stata aver incontrato Betheliem, responsabile di un presidio sanitario poco lontano, che l’ha convinta a non rischiare più la vita e a restare per tre mesi in osservazione e finalmente a riposo, portando a termine in sicurezza la sua ultima gravidanza.

Quante e dove
Nel Mothers’ Index di Save the Children, il rapporto sulla salute delle madri in 178 Stati, l’Etiopia si colloca al 149° posto ed è tra i 10 Paesi con il tasso più preoccupante di decessi neonatali. Colpa di una rete di assistenza insufficiente: l’Etiopia conta infatti un unico operatore sanitario ogni 4 mila abitanti (in Norvegia, per esempio, il rapporto è di uno a 53). Così nelle zone rurali solo il 5% delle donne sono assistite al parto, contro il 52% delle città.
Nel 2013, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, 289 mila donne sono morte per complicazioni legate alla gravidanza e al parto, 800 ogni giorno, mentre un milione di neonati non ce l’ha fatta a superare le prime 24 ore di vita. Nei Paesi in via di sviluppo, la mortalità materna travalica di 15 volte quella degli Stati industrializzati, che registrano 2.200 decessi sui 289 mila globali. Due Paesi al mondo contribuiscono a un terzo di tutte le morti materne: l’India, con il 19% (56 mila casi), e la Nigeria con il 14% (40 mila). Su scala planetaria c’è stata una notevole riduzione rispetto al 1990, quando i casi registrati erano 543 mila, ma ancora un quarto dei Paesi con le più alte percentuali presentano progressi insufficienti: in tutta l’Africa, la riduzione  della mortalità materna dal 1990 al 2010 è stata solo del 2.7%.

Perché
In molte zone rurali, anche un piccolo presidio sanitario può essere un miraggio, per l’incapacità dei sistemi sanitari nazionali di garantire una presenza capillare di medici, ostetriche e infermieri specializzati. In questi luoghi, le donne incinte muoiono per cause che, in altri contesti economici e sociali, sarebbero del tutto prevenibili: mancanza di assistenza durante la gravidanza, malnutrizione, infezioni. Oltre a inadeguate condizioni ambientali e igieniche durante il parto, che avviene spesso in casa e porta a gravi emorragie, infezioni, complicazioni di ogni genere. 

Come agire
Raggiungendo le comunità più remote e isolate in 40 Paesi del mondo, formando le ostetriche e istruendo le donne dei villaggi sulle pratiche igieniche di base, l’organizzazione internazionale Save the Children ha coinvolto 14,4 milioni di bambini sotto i 5 anni in programmi di nutrizione e 13,2 milioni di madri e bambini in progetti di salute materno-infantile. I donatori italiani hanno contribuito direttamente ai progetti della campagna Every One in 8 Paesi, con cifre da record per il Malawi, con 230 mila bambini raggiunti nel 2013, e l’Uganda, con 278 mila madri beneficiarie.
Per informazioni: every-one@savethechildren.it


Foto Plan
4) LE MUTILAZIONI GENITALI
A gennaio, in Egitto, il medico Raslan Fadl è stato condannato a due anni e tre mesi di carcere per aver praticato una mutilazione genitale su una ragazzina di 13 anni causandone la morte. Una sentenza definita “storica” dalle associazioni per i diritti umani, in un Paese in cui questa pratica è vietata per legge ma ancora molto diffusa nelle zone rurali. Il Protocollo di Maputo, firmato nel 2005 da tutti i membri dell’Unione Africana, proibisce la mutilazione genitale femminile, così come la risoluzione adottata dall’Onu nel 2012 e la maggior parte delle legislazioni nazionali, eppure questa ferita indelebile sulla sessualità e la salute delle donne resta difficile da sradicare. Dal taglio del clitoride all’asportazione delle piccole labbra, fino all’eliminazione delle grandi labbra e alla cucitura della vulva (che avviene nell’infibulazione, in uso soprattutto nel Corno d’Africa), la mutilazione genitale causa emorragie anche mortali, infezioni, cistiti, dolore nei rapporti sessuali, gravi complicazioni al parto. 

Quante e dove
Oltre 125 milioni di donne nel mondo hanno subito la mutilazione genitale. Su 29 Paesi al mondo censiti dall’Unicef come ancora feriti da questa pratica, 28 sono in Africa e solo uno, lo Yemen, si trova nel continente asiatico. I dati più allarmanti riguardano Somalia, Guinea, Djibuti ed Egitto, dove la percentuale di donne “tagliate” supera il 90%. Anche Eritrea, Mali, Sierra Leone e Sudan presentano statistiche orrende: in questi Stati, le mutilazioni genitali riguardano oltre l’80% della popolazione femminile. Negli ultimi anni anche l’Europa e gli Stati Uniti hanno rilevato casi di donne colpite: figlie di famiglie immigrate da Paesi dove è in uso la pratica, “sistemate” in vacanza nei luoghi d’origine o addirittura mutilate illegalmente nel Paese di residenza. In Italia, il ministero della Salute stima tra le 20 e le 30 mila vittime. Negli Stati Uniti, l’organizzazione non profit Population Reference Bureau sostiene che il loro numero sia più che raddoppiato dal 2000, raggiungendo il mezzo milione. Lo stesso numero stimato in Europa da un’indagine del Parlamento Europeo. 

Perché
Contrariamente al luogo comune per cui la mutilazione genitale sia tipica della cultura musulmana, il Corano non contiene alcun riferimento alla circoncisione femminile. Lo scorso anno, il Consiglio islamico di Gran Bretagna l’ha formalmente condannata, in seguito a una campagna del quotidiano The Guardian contro le mutilazioni genitali femminili, così come alcuni teologi dell’Università Al Azhar del Cairo, tra i principali centri mondiali d’insegnamento religioso dell’Islam. La mutilazione genitale è infatti diffusa anche in Paesi con una forte presenza cristiana, come l’Eritrea e l’Etiopia. Si tratta dunque di una pratica tradizionale che nel tempo si è radicata in alcune comunità, intrecciandosi con cerimonie e rituali, come quella per il passaggio all’età adulta delle ragazze: il taglio del clitoride è associato alla purezza e alla verginità, ed è visto come un requisito per contrarre un buon matrimonio. Le ragazze “non tagliate” sono considerate impure o indegne, ma è ovvio che alla radice c’è una concezione della donna come possesso del marito: se privata del piacere sessuale, sarà una moglie più fedele.

Come agire
Amref Health Africa, la maggiore organizzazione sanitaria africana con sede anche in Italia, promuove in Kenya e in Tanzania dei riti di passaggio “alternativi” che in pochi anni hanno salvato oltre 4 mila ragazze. Cerimonie identiche a quelle tradizionali ma private del “taglio”: gli anziani dei villaggi incoraggiano le bambine non più a sposarsi in fretta bensì a studiare, benedicendo i loro libri e quaderni. Una rivoluzione che sta funzionando soprattutto nelle comunità Masai del Sud del Kenya, dove la mutilazione genitale riguarda il 73% delle donne (contro il 27% della media nazionale).
Per informazioni: tel. 06/99704650, http://www.amref.it/


Il premier indiano Narendra Modi
5) GLI ABORTI SELETTIVI
Ci sono angoli di mondo in cui le tre parole più funeste da pronunciare a una donna incinta sono: “È una femmina”. Negli anni Novanta, il premio Nobel indiano Amartya Sen lanciava la sua famosa denuncia su 100 milioni di bambine “cancellate”: abortite alla prima ecografia perché indesiderate a causa del sesso, oppure uccise da piccole, lasciate senza cure durante una malattia. “È una rivoluzione tecnologica reazionaria”, scriveva Amartya Sen, “è il sessismo dell’aborto selettivo”. Lo scenario non è cambiato molto, da allora, così nel 2014 l’economista ha reiterato l’appello contro la “strage di Eva”, il gendercide. Nel suo nuovo saggio The Lost Girls, si sottolinea come oggi “l’utilizzo di nuove tecniche come l’ecografia per determinare il sesso dei nascituri ha portato a numeri enormi e crescenti di aborti selettivi di feti femminili. L’istruzione delle donne, che è stata una forza potente nel ridurre la discriminazione di genere, non è riuscita a eliminare, almeno non ancora, la discriminazione neonatale”.
Secondo la divisione Onu sulla popolazione mondiale, nel lungo termine gli aborti selettivi mineranno l’equilibrio demografico globale: il divario tra il numero di donne e uomini si allarga progressivamente a favore di questi ultimi (nel 2013, le donne erano il 49,59%) e sono India e Cina, gli Stati più popolosi e più affetti dal fenomeno degli aborti selettivi, a pesare sui dati. La Cina ha 50 milioni di uomini in più rispetto alle donne. L’India, 43 milioni.

Quante e dove
In India, se nel 1971 le neonate erano 964 ogni mille maschi, nel 2011 sono scese a 919. Secondo un’inchiesta del britannico The Lancet, 12 milioni di bambine indiane non sono mai nate tra il 1980 e il 2010. Oggi la Corte suprema proibisce anche le pubblicità che invitano a determinare il sesso del nascituro, e il premier Narendra Modi ha lanciato una campagna contro gli aborti selettivi, che pure sono vietati in tutto il Paese da una legge del 1994 sulle tecnologie diagnostiche pre-natali, con multe e il carcere per i trasgressori. Il fenomeno riguarda anche la Cina, dove nascono 116 maschi ogni 100 femmine: di recente il governo ha iniziato a colpire le agenzie che inviano all’estero campioni di sangue delle future mamme per determinare il sesso del nascituro, poiché in Cina queste analisi sono formalmente proibite. 

Perché
India e Cina sono i due Stati più popolosi al mondo e dunque quelli in cui è stata più forte la spinta al controllo delle nascite. Dal 1979, la politica cinese del figlio unico sanziona chi mette al mondo più di un bambino. In India, molte famiglie optano per il figlio unico maschio spinti da retaggi patriarcali che considerano le femmine un peso per l’economia della casa per via della dote da pagare alla famiglia del futuro marito. Il premier Modi ha definito la pratica dell’aborto selettivo “una malattia psicologia dell’intero Paese”, mentre il Nobel Amartya Sen fa notare che la colpa non va attribuita alla povertà o all’arretramento sociale, poiché la piaga coinvolge donne istruite e benestanti, non solo in India ma anche nelle comunità di indiani immigrati a Londra. Secondo un’indagine governativa britannica, la discrepanza tra figli maschi e femmine si osserva proprio tra gli immigrati.  

Come agire
La campagna di Action Aid Beti Zindabad (“Lunga vita alle figlie”) preme sul governo indiano perché rafforzi le misure legali contro gli aborti selettivi, il monitoraggio del fenomeno e la sensibilizzazione dei medici. Oltre a cercare di convincere le comunità locali ad approvare una risoluzione che riconosca donne e bambine come titolari di diritti. Per l’8 marzo, Action Aid rilancia anche la sua campagna Azione Donna per sostenere progetti sull’empowerment femminile in quattro Paesi, a partire dall’India.
Per informazioni: tel. 02/742001, http://www.actionaid.it


Angelina Jolie
6) GLI STUPRI DI GUERRA
“Dobbiamo mandare al mondo intero il messaggio che non è una disgrazia essere una sopravvissuta di una violenza sessuale, e che la vergogna è tutta dell’aggressore” tuonava Angelina Jolie, rappresentante speciale dell’agenzia Onu per i rifugiati, al summit mondiale sugli stupri di guerra tenutosi a Londra nel 2014. E il 10 febbraio scorso l’attrice ha inaugurato, sempre nella capitale britannica, il primo istituto universitario per lo studio e la prevenzione delle violenze sessuali in situazioni di conflitto: il Centro per le donne, la pace e la sicurezza, che fra i suoi obiettivi ha anche quello di elaborare una legislazione internazionale che assicuri la condanna dei colpevoli.
In molti conflitti contemporanei privi di linea del fronte, dove a combattersi sono sigle para-militari con alleanze ambigue e volatili, il corpo delle donne è diventato un campo di battaglia e lo stupro di massa un’autentica strategia di guerra. Solo nel 1992, di fronte agli scempi commessi durante la guerra nella ex Jugoslavia, per la prima volta nella storia lo stupro di guerra è stato definito dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia un crimine contro l’umanità, al pari della tortura e dello sterminio. Poco dopo, anche il Tribunale per il Ruanda si è espresso in questi termini. La Corte penale internazionale comprende nel suo statuto lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la gravidanza e la sterilizzazione forzata, o “qualsiasi altra forma di violenza sessuale di analoga gravità” come crimini contro l’umanità qualora siano commessi in modo diffuso o sistematico. Dal 2007, l’Onu ha un’agenzia speciale contro le violenze sessuali in situazioni di conflitto, e negli anni successivi ha adottato due risoluzioni per contrastare queste tragedie e mettere fine all’impunità degli esecutori.

Quante e dove
Difficile contare le vittime quando tantissime tacciono per vergogna. Nell’est della Repubblica Democratica del Congo, dove dal 2003 la guerra ha lasciato il posto a una guerriglia sanguinosa e incontrollabile, si parla di 200 mila donne vittime di stupri efferati, e di una violenza al minuto. Un dramma collettivo che si è consumato anche in Cecenia, Darfur, Libia. In Ruanda, durante il genocidio del 1994, furono violentate tra le 100 mila e le 250 mila donne, 60 mila in Sierra Leone dal ‘91 al 2002 e oltre 40 mila in Liberia dall’89 al 2003. Oggi le zone più calde sono l’Iraq, con le donne e ragazze della minoranza religiosa Yazidi fatte prigioniere dai miliziani dell’Isis; la Siria, la Repubblica Centrafricana e il Sud Sudan. La violenza sessuale su vaste proporzioni può continuare o addirittura aumentare in seguito al conflitto, come conseguenza della mancanza di sicurezza e della situazione di impunità.

Perché
Lo stupro, più dell’omicidio, semina terrore tra i civili, disgrega le famiglie, distrugge le comunità e, in alcuni casi, modifica la composizione etnica della generazione successiva. Talvolta si ricorre alla violenza di massa per contagiare deliberatamente le donne con il virus dell’Hiv o per renderle incapaci di procreare. Gli effetti della violenza sessuale sono infatti permanenti, poiché perdurano anche quando il conflitto è ufficialmente terminato, con gravidanze indesiderate, infezioni trasmesse per via sessuale e l’emarginazione delle vittime tacciate di infamia. Lo stupro di massa come tattica di guerra è, in altri termini, la distruzione di ogni confine morale e di ogni umanità: un percorso di sangue che spesso rende impossibile una riconciliazione post conflitto.

Come agire

Utilizza l’hashtag #TimetoAct la campagna del governo britannico contro le violenze sessuali in guerra (The Preventing Sexual Violence in Conflict Initiative-PSVI), che fa pressione a livello internazionale per cancellare definitivamente la cultura dell’impunità per questi crimini. Mentre Women Under Siege (“Donne sotto assedio”) è un progetto della non profit americana Women’s Media Center che indaga a fondo sul tema, pubblicando notizie aggiornate e testimonianze delle vittime da tutto il mondo.

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