“Qui non siamo niente”. La vita dei profughi siriani in Giordania
Lungo le scale senza ringhiera
d’un edificio incolore nel quartiere Jabal al-Nuzha, a nord di Amman, il buon
profumo dei panni stesi discorda con il colpo d’occhio su muri scrostati,
scarpe infangate sparse per angusti pianerottoli, volti ombrosi che
s’affacciano da porte socchiuse.
Dania ci riceve in un bilocale
all’ultimo piano, spoglio e pulito. Ha 31 anni e 4 figli. L’ultima, neonata,
dorme sotto l’abbaino aperto verso gli stormi d’uccelli nel cielo freddo e
terso.
Dania viveva a Homs, una delle
città siriane seviziate da assedi interminabili: quando una bomba ha
disintegrato la sua casa addosso alla figlia Dala, che oggi ha 13 anni e un
trauma irreversibile, hanno venduto gli ori di famiglia e sono partiti per la
Giordania. “Ci hanno portati nel campo profughi di Zaatari” racconta la donna.
“Ci sentivamo prigionieri e siamo scappati”. Il marito fa l’imbianchino, in
nero. Il figlio maggiore, Ayman, 15 anni, ha lasciato la scuola per lavorare da
un elettricista. Dania non può nominare la Siria senza piangere: “Avevamo
tutto. Qua non siamo niente”.
Non è una frase retorica, la
sua: per il governo giordano, Dania e i suoi familiari non sono che fantasmi,
come tutti gli 850mila siriani clandestini stimati nel Paese, a fronte di altri
656mila che invece sono registrati presso l’Unhcr, l’agenzia Onu per i
rifugiati. Un quinto di questi abita in 3 campi profughi; gli altri risiedono
nelle città di Amman, Irbid, Mafraq, Zarqa. Secondo l’Unhcr, l’86% dei siriani in Giordania vive sotto la
soglia di povertà, 68 dinari al mese (circa 90 euro). Il 99% di quelli che
hanno la fortuna di lavorare, lavorano in nero. E tutti, fantasmi o no, sono
diventati ospiti sgraditi.
Quella fetta d’Europa che si
sente invasa da migranti e rifugiati forse cambierebbe idea visitando la
Giordania. Nello Stato mediorientale fino a ieri più accogliente, “la misura è
colma” lamentava re Abdallah già
l’anno scorso, poco prima di ottenere dalla comunità internazionale 1,7
miliardi di dollari fino al 2018 per l’emergenza profughi. Qui i siriani
s’accodano a 61mila iracheni, a 17mila palestinesi dalla Siria, a 11mila di
varie nazionalità (soprattutto yemeniti e sudanesi), a un’antica comunità di
oltre 2 milioni di palestinesi che però, a differenza degli altri, godono della
cittadinanza grazie a una legge degli anni ’50. Il totale, senza contare la
massa dei clandestini, è di quasi 3 milioni di stranieri: un terzo della
popolazione del regno hashemita. In termini percentuali è la stessa quota del
vicino Libano che però, in numeri assoluti, ne ospita la metà. A misura ormai
colma, la Giordania come Libano e Turchia ha chiuso i confini con la Siria nel
giugno 2016, quando l’Isis ha fatto strage di militari alla frontiera nord di
Rukban. Oggi, dice l’Onu, sono 60mila i siriani accampati fra Hadalat e Rukban,
tra le sabbie di un deserto comunque meno ostile delle bombe, nell’illusione
che la Giordania cambi idea.
“I media incolpano noi della
mancanza di lavoro, della crisi idrica, delle infrastrutture carenti” osserva
la giornalista siriana Rasha Faek, che vive ad Amman dal 2013 e si sente
fortunata perché lei, diversamente da tanti suoi connazionali, ha un regolare
permesso di lavoro come caporedattore della rivista britannica Al
Fanar.
La sua famiglia è rimasta a Damasco; Rasha non spera più di portarla qui. “Ogni
giorno 60 siriani rientrano in patria: preferiscono tornare sotto le bombe, o
rischiare la vita al confine turco verso l’Europa, che languire qui da
miserabili”.
A metà marzo la crisi in Siria è
entrata nel suo settimo anno, senza che se ne intraveda la fine. La sua
emorragia umana conta 5 milioni di profughi, in maggioranza in Turchia, Libano
e Giordania. Il blocco di Donald Trump non fa che incupire il loro limbo.
L’Europa ha concesso 95mila posti, di cui metà nella sola Germania, e l’Italia
s’è impegnata a reinsediare 1.989 siriani. I Paesi del Golfo e la Russia si
voltano dall’altra parte.
Nella cittadina di Mafraq, a
una manciata di chilometri dalla Siria, le rifugiate alleviano il trauma con le
psicologhe dell’International Rescue Committee. Nuur, 30 anni, ha occhi
finemente truccati sotto il niqab nero: il suo personale fotogramma del
conflitto è la sorella che spazza un balcone a Homs e lei che, dalla strada, le
sorride nell’istante in cui un cecchino la fredda. “Qui siamo al sicuro”
sussurra, “ma se prima i giordani erano gentili con noi, oggi sono diffidenti,
e i bambini insultano i nostri. Non vogliamo usurpare la loro terra, solo
tornare in una Siria pacificata”.
“Le donne sono le più
vulnerabili” spiega Adnan Abu Alhaija, manager dell’Istituto per la salute
familiare, un ente giordano sostenuto dall’associazione italiana Aidos. Ad
Amman, nella periferia di Sweileh, offre cure mediche a donne e bambini: “Per
evitare rivalità” precisa, “accogliamo anche giordani indigenti”. Le siriane
che incontra sono “dure, con troppa rabbia in corpo. Alcune vedove finiscono
per vendersi: noi le aiutiamo, anche dopo che il ministero della Sanità ci ha
accusati d’incoraggiare la prostituzione”.
L’ondata
di profughi mette in ginocchio l’economia già debole del regno hashemita,
povero d’acqua e risorse naturali. Per la Banca Mondiale, i 655mila siriani
registrati costano al governo un quarto delle sue entrate: 2,5 miliardi di dollari l’anno. La
disoccupazione giovanile supera il 30% così, per legge, il lavoro resta un
diritto riservato ai giordani: solo uno sparuto gruppo di 36mila siriani ha
ottenuto un permesso, ma in precisi settori non qualificati. Amer, chirurgo di
Daraa, presta la sua opera sottobanco in un ospedale di Amman: “Rischio
l’arresto per il lavoro nero” ammette “ma almeno mantengo la mia dignità”. E se
un siriano vuole aprire un’impresa, oltre a trovare un partner giordano deve
dare un inarrivabile deposito di 70mila dollari.
“Siamo un Paese di profughi eppure non abbiamo
ratificato la Convenzione di Ginevra sull’accoglienza”, puntualizza la giurista
Samar Muhareb del gruppo Ardd, che dà supporto legale ai clandestini. “In
pratica, la Giordania non riconosce mai lo status di rifugiato ma si riferisce
ai profughi come a “visitatori”, “ospiti”: termini senza riscontro nelle leggi.
Quelli non registrati da Unhcr accedono comunque alla sanità di base, ad aiuti
in cibo e acqua, alla scuola per i figli. La burocrazia statale è però
faticosa: per avere i documenti, anche solo per sposarsi e registrare i figli, è
più semplice procurarsene di falsi chiamando la famiglia in Siria”. Anche
Matteo Paoltroni di Echo, la Direzione per gli aiuti umanitari della
Commissione Europea (che dal 2011 ha destinato 657 milioni di euro ai rifugiati
in Giordania), non nasconde preoccupazione: “La condizione dei profughi è
deteriorata, tra famiglie ammassate al confine e persone non registrate. Sono
queste le priorità da affrontare”.
In un’inedita Giordania
sull’orlo del conflitto sociale, la questione profughi s’intreccia alla minaccia
del terrorismo: da quando re Abdallah, nel 2014, s’è unito alla coalizione
anti-Isis, fra attacchi kamikaze e cellule dormienti il Califfato punta a
espugnare il Paese più strategico, per l’Occidente, nelle operazioni militari
in quest’area. Il governo giustifica così la chiusura dei confini, insieme alle
deportazioni in Siria di rifugiati considerati pericolosi, come denuncia Unhcr,
e a misure più ferree nei campi profughi.
Vicino a Mafraq, Zaatari è il
campo profughi più popoloso al mondo dopo quello di Dadaab in Kenya. Qui,
80mila siriani riempiono una sconfinata geometria di container bianchi,
cisterne per l’acqua, filo spinato. Da Zaatari non si esce senza uno sponsor
giordano che sia anche un parente - quasi impossibile -, a meno di dileguarsi fra
gli 850mila fantasmi clandestini. La promiscuità dal sapore carcerario si
stempera lungo la via chiamata Champs-Élysées, tra negozietti che vendono dall’elettronica
agli abiti da sposa, in un’economia informale tollerata per sedare gli animi.
Ali Jubrail, panciuto signore di Damasco, serve deliziose felafel nel suo
ristorante. Younis, da Daraa, espone intimo femminile di colori sgargianti.
Ogni mese, nel campo, nascono 150 bambini: come un suggello all’assurda
precarietà permanente
di questi indesiderati.
da D-la Repubblica, 25 marzo 2017
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