CAMBOGIA, CHE COSA TI HA FATTO L'AIDS

foto di Francesco Cocco / Contrasto


Il virus è arrivato negli anni Novanta insieme ai caschi blu dell’Onu. Oggi il paese ha il record asiatico delle infezioni. Che covano nei bordelli sulla strada per la Thailandia

Precipita e rinasce secondo i capricci del fiume Tonlé Bassac lo slum di Chamruen, periferia di Phnom Penh. Trecento famiglie arrivate dalla campagna e ammassate tra ripari disumani che gli estenuanti temporali disfano e costringono a ricostruire all’infinito. Un rottame di casa sta lì, sulla riva del fiume gonfio, sdraiato su una barca come un involontario monumento alla gracilità dell’esistenza.
Entrare in casa della vecchia Sarin è una tregua. Una stuoia pulita, coperte ben piegate in fondo alla stanza, le solite litanie melense da una radio nel vicolo, languore e persecuzione dell’intera Cambogia che pare non tollerare più il silenzio.
Poi Sarin ordina al nipote dodicenne: «Avanti, fa’ vedere ai signori che cosa ti ha fatto l’Aids». E Chankro, sguardo trasparente, obbedisce. Alza la maglia scolorita e rivela piaghe sulla schiena, sui fianchi. Cicatrici sbilenche come di punizione, e invece sono sintomi comuni della malattia di cui lui sa dire solo: «È contagiosa». Talvolta la pelle si accartoccia per reazione ai farmaci antiretrovirali: Chankro li ingoia da sei anni, mezza vita. L’Aids ha divorato i suoi genitori, e qualcuno ha convinto nonna Sarin a sottoporre lui e il fratellino al test dell’Hiv. Entrambi sieropositivi, di certo dalla nascita. Perdono peso e la voglia di giocare fuori. Dopo la scuola riempiono fogli con sagome di macchine, anatre, alberi. Sorridono al mio regalo sciocco, due penne a sfera.
Gli orfani dell’Aids sono numeri impazziti, in Cambogia. Il governo ne conta 51 mila, l’Unicef 30 mila, altre agenzie umanitarie 77 mila. Le statistiche sui bambini sieropositivi sono altrettanto sfuggenti: l’unica certezza del ministero della Sanità è che, a giugno, quelli in trattamento con i farmaci antiretrovirali erano quasi 2 mila. Pochi, verrebbe da dire, ma lo stesso ministero dichiara che tanti bambini nati con il virus muoiono prima che si scopra la causa di diarree e febbri prostranti, e azzarda una stima: sarebbero almeno 12 mila i minori che convivono con l’Aids, in Cambogia. La trasmissione dell’Hiv da madre a figlio provoca oltre un terzo delle nuove infezioni, seconda solo al contagio da marito a moglie che ne determina il 45 per cento.

In Cambogia l’Aids è emergenza e vergogna. Pestilenza a lungo sottovalutata, tuttora incompresa lontano dalle città, tra i paesaggi liquidi e rurali che disegnano il paese più vero e raggiungibile a stento dai mezzi di trasporto e dalle informazioni. Il primo caso di Aids è stato diagnosticato alla fine del ’93, proprio mentre le missioni dell’Onu Unamic e Untac lasciavano il paese. Vi avevano stazionato due anni nell’illusione di condurre a elezioni democratiche un popolo decimato dal regime di Pol Pot (un milione e 700 mila morti dal ’75 al ’79), dall’occupazione vietnamita e poi dalla guerra civile. Il risultato è stato un altro conflitto intestino, conclusosi solo nel ’98, con un effetto collaterale: i 22 mila caschi blu dell’Onu hanno fatto esplodere l’industria della prostituzione e, tra loro, l’ufficiale medico Peter Fraps aveva diagnosticato 47 sieropositivi e ne ipotizzava altri cento. Un documento del Congresso degli Stati Uniti lo dice chiaramente: gli uomini dell’Untac facevano i
pendolari del sesso in Thailandia, dove i bordelli erano già fiorenti, «agevolando l’introduzione dell’Hiv in Cambogia». Oggi la percentuale di sieropositivi è la più elevata dell’Asia: l’1,9 per cento.
Sono 25 mila i cambogiani in cura con i farmaci antiretrovirali che 156 ospedali danno gratis grazie alle donazioni del Global Fund dei G8, ma solo 19 sono attrezzati per l’età pediatrica. Lo Stato riesce a spendere per la sanità non più di tre dollari l’anno per ogni cittadino. A Moung Russey l’Aids cova nei bordelli ai margini dello stradone che collega Phnom Penh con Battambang e Bangkok. Viavai di camionisti e gente che arriva dai villaggi galleggianti sul lago Tonlé Sap e sul fiume Sangker a vendere pesce nel mercato maleodorante di Battambang. Questa provincia, ancora infarcita di mine antiuomo e teatro dei cortei verso i campi profughi allestiti in Thailandia all’epoca della guerriglia impazzita, nei primi tre mesi del 2007 ha registrato il maggior numero di nuove infezioni di Hiv dopo Phnom Penh: 330. È l’unica zona della Cambogia in cui la percentuale di sieropositività fra le sex workers (così sono eufemisticamente chiamate le prostitute da un popolo che arrossisce parlando di sesso) è ferma al 35 per cento, mentre nel resto del paese è calata al 21 in pochi anni.

Il bordello di Mayeak, a sud di Battambang, ha un cortile melmoso. La madre e la sorella del maborn, il magnaccia, siedono fuori da una capanna con alcolici a buon mercato, dove i loro bambini guardano la tv. Le ragazze ricevono i clienti in quattro stanzette ricavate da traballanti pezzi di lamiera: Pao, Va, Sida e Mary, cerone bianco e rossetto rosso, geishe avvizzite in ciabatte di gomma. Hanno 28, 30 anni, figli lasciati alle madri lontane. Guadagnano 5.000 riel a cliente, poco più di un euro (altri 5.000 spettano al maborn). Dicono di farlo per mangiare. Quando non lavorano ascoltano canzoni romantiche alla radio, e così le karaoke girls didue locali poco distanti, nell’oscurità rotta da lucine natalizie di mille colori. Il karaoke non è che una stanza infestata di zanzare, un divano in pelle sfondato, un televisore dove scorrono i video musicali e un tavolo per poggiare le casse di birra calda, Anchor in lattina allungata con ghiaccio. Ny, Oy, Sieng e Nita bevono da una cannuccia. Dicono di avere 20, 23 anni ma paiono adolescenti, anche negli atteggiamenti ingenui.
«Ero clandestina in Thailandia» racconta Ny, orecchini di plastica gialla, grassa e gentile. «Raccoglievo latta da una discarica per un tizio che la rivendeva. Non mi ha mai pagata, così sono tornata ma non avevo soldi per raggiungere casa mia e mi sono fermata qui». Nessuna di loro ha fatto il test dell’Hiv. Estraggono dalle tasche preservativi “Number 1”, 100 riel ciascuno, giurando che se un cliente insiste per farlo senza, lo cacciano. Ma è facile immaginare che di fronte al miglior offerente, in un contesto tanto ossessionato dalla fame, si ceda a qualunque richiesta. Eppure queste non sono ragazze trafficate, strappate
dalle loro case o vendute dai padri come ci si aspetterebbe dalla Cambogia tragica delle prostitute bambine offerte agli stranieri.

I turisti del sesso li riconosci subito: a Phnom Penh girano tra i bar del centro e negli hotel del lungo Mekong. Pochi s’inoltrano a Svay Park, quartiere periferico a luci rosse dove le karaoke girls e le massage girls hanno un angelo custode che indossa una collana di finte perle e un reggiseno fucsia che s’intravede sotto la camicetta nera: Keo Tha, prostituta cinquantenne, sieropositiva e fieramente libera da qualsiasi maborn. Gira ogni notte tra i bordelli con un sacco blu zeppo di preservativi, per istruire le ragazze su come metterli e perché servono. Secondo l’Unicef, metà delle 15 mila prostitute di Phnom Penh ha l’Aids. «Alcune se ne fregano di usare il preservativo » rivela Tha mentre beviamo la solita birra calda nell’ennesimo karaoke con le ragazze in esposizione su sedie a sdraio numerate. Rivediamo Tha su un opuscolo che l’organizzazione ActionAid distribuisce a Svay Park: lei in copertina, a letto con un uomo senza volto, a scartare insieme un profilattico. Prevenzione dal basso. Anzi, dal fondo. L’unico sentiero in grado di raggiungere al cuore questo mondo dove la notte si confonde con il giorno.

Il reportage è un brano del libro La ruota che gira (edizioni Contrasto in collaborazione con la ong Action Aid), con le foto di Lorenzo Pesce e Francesco Cocco

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