DONNE D’ALGERI


“Darna” vuol dire casa mia. È il centro nato in Algeria per le vittime della violenza del Fronte islamico, che oggi accoglie tutte le altre

«La parola è deflorata, violentata, prima che si verifichi l’altra deflorazione, l’altra violenza».
Assia Djebar, Donne d’Algeri nei loro appartamenti

In Algeria, la parola scomoda e aliena di Fatiha, Nadia e Rahmouna non si sentirà più. A queste tre donne sta accadendo l’inverso di quanto Assia Djebar scriveva nel 1979: hanno subìto prima la violenza, la notte di sangue vero, e poi il colpo di grazia che le esilia nel silenzio. Vittime e testimoni chiave nel processo per uno degli stupri collettivi più selvaggi degli ultimi anni, oggi vogliono tacere: non parteciperanno al processo d’appello che si terrà a Biskra, 300 chilometri a sudest di Algeri.

Loro stesse avevano preteso una sentenza più dura della precedente. Ma si sono scoperte stanche, povere, derise, insultate dai vicini e dai familiari, minacciate dai parenti dei carnefici. A trent’anni si sentono finite. Si maledicono per essersi illuse che la loro parola, liberata come in un parto doloroso, avesse potere.

IL MASSACRO DI HASSI MESSAOUD
Nell’estate del 2001 Fatiha, Nadia e Rahmouna lavorano con decine di altre donne ad Hassi Messaoud, la più importante base petrolifera nel Sahara algerino, a 800 chilometri dalla capitale. Fanno le pulizie nelle case degli stranieri e presso le multinazionali. Sono venute dal nord per guadagnare. Abitano nelle baracche di El Haicha per ottomila dinari al mese e regalano una percentuale del salario allo strozzino che le ha impiegate. Vivono sole, senza mariti. E lavorano. Elementi sufficienti a nutrire la rabbia della gente del luogo, in gran parte disoccupata, che parla della baraccopoli come di un concilio di puttane. La miccia è una predica del venerdì dell’imam Amar Taleb: sono queste donne le responsabili della dissoluzione dei costumi. Vanno punite (tutti hanno sentito e riferito i contenuti della predica: il ministero degli Affari religiosi smentirà).
Taleb non fa che riproporre i sermoni che il Fis, Fronte islamico della salvezza, gridava per il Paese durante il grande terrore degli anni Novanta. Ma questa volta parte un raid punitivo di dimensioni estreme: la notte del 13 luglio, trecento uomini irrompono nelle abitazioni delle domestiche urlando «Allah è grande». Ne torturano trentanove, violentandole a turno. Usano bastoni e spranghe di ferro. Tagliano seni, cosce e vagine. Tentano di seppellirle sotto sabbia e sassi, ma finalmente la polizia interviene. Le donne vengono portate in ospedale, poi in un ostello dove staranno rinchiuse per giorni, ufficialmente per essere protette. Qualcuna resterà disabile.

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