IL CARCERE CHE FA PAURA ALLA ‘NDRANGHETA
Sono giovani, al primo reato: nelle galere comuni diventerebbero subito gregari dei boss. Qui invece non passano la giornata a collezionare livore, ma lavorano per lo Stato. Un istituto sperimentale, unico in Italia, dove entra solo chi vuole cambiare vita. Rinnegando la legge della mafia
C’è la cima ancora bianca dell’Etna, oltre il mare arrabbiato dello Stretto, e pazienza che lo sguardo debba farsi largo tra le sbarre. Se fosse capitato a Laureana di Borrello, in Calabria, il Raskolnikov di Delitto e castigo avrebbe preteso un supplemento d’afflizione. E anche il comandante Antonio Schipilliti, che non è un personaggio letterario ma uno che è stato fra i detenuti del 41 bis e ha aneddoti da vendere su Totò Riina, in questa galera che pare un collegio cessa di sentirsi carceriere e si concede larghi sorrisi, offrendomi dolcetti alla mandorla dopo il caffè - ottimo - sorseggiato in cella con i detenuti.
Strano che l’avanguardia del trattamento carcerario in Italia appartenga a un paesino calabrese famoso per l’esecuzione di una bambina con sette spari in faccia, nel 1989. Sta qui per questo la casa di reclusione “Luigi Daga”, inaugurata tre anni fa a Laureana di Borrello. Per sfidare la cultura della violenza nella sua culla: la piana di Gioia Tauro, cuore della ’ndrangheta borghese dei Piromalli e dei Molè, oggi ricchissima grazie alla droga che transita dal grande porto.
E questo è un carcere-scuola di vita per giovani al primo reato, nella provincia di Reggio Calabria dove la disoccupazione supera il 16 per cento e le ’ndrine contano cinquemila affiliati, un decimo della popolazione.
Negli altri penitenziari calabresi la voce già cammina: non chiedete il trasferimento a Laureana, faranno di voi degli infami, cioè dei pentiti. «È falso ma va bene così, significa che la ’ndrangheta teme la nostra concorrenza: le sottraiamo manovalanza» sorride Mario Nasone, assistente sociale e funzionario del ministero della Giustizia a Reggio. È sua l’idea di un carcere a custodia attenuata per giovani adulti, esperimento unico in Italia e rarità anche in Europa. Una casa di rieducazione simile a una comunità, come ne esistono per i detenuti tossicodipendenti «ma non per quelli ammalati di ’ndrangheta» sottolinea Nasone. Perché se una terra in bilico come la Calabria fatica a togliere appeal al crimine, può almeno impedire che il carcere lo moltiplichi.
«La galera, da noi, è l’università della delinquenza: un giovane alla prima detenzione viene studiato dai boss, coltivato, messo alla prova e infine reclutato» osserva Nasone. «È una balla che i nostri giovani scelgono l’illegalità perché manca il lavoro: cercano figure di riferimento, l’appartenenza a qualcuno e a qualcosa. E nel vuoto dei paesi, la ’ndrangheta fa presto ad accreditarsi».
Tra questi edifici verdi e panna, invece, accade che l’orizzonte si dilati. Al “Luigi Daga” entra chi ha meno di 34 anni (come la metà dei detenuti calabresi), viene dalla regione, è al primo reato, anche se grave come l’omicidio («Con le pene lunghe lavoriamo meglio: c’è più tempo» dice Nasone), e intende davvero cambiare rotta. Tanti arrivano dal carcere minorile, risparmiandosi il battesimo della violenza nelle galere qualsiasi.
Si passa una selezione e si firma un patto, impegnandosi a lavorare alle dipendenze del ministero della Giustizia e a osservare regole che, alla fine, restituiranno uomini svuotati dalla voglia e dal bisogno di delinquere. Il mezzo è il lavoro, merce rara nei penitenziari italiani, dove per tre quarti dei detenuti le giornate se ne vanno in branda fabbricando barchette con gli stuzzicadenti e collezionando livore.
Qui, in cambio di celle a due letti aperte fino a sera, si diventa falegnami e ceramisti, si coltivano piante grasse nelle grandi serre sulla collina, tutti prodotti che arrederanno gli uffici dell’amministrazione penitenziaria. C’è la palestra, il cinema in dvd al sabato, i corsi di computer, le sedute di autocoscienza. Prigionia d’alta qualità, invidiabile per gli altri 1.400 detenuti di Calabria stipati in celle da sei, nove, quindici letti, e pure per il resto della popolazione carceraria italiana.
L’associazione Antigone, che ogni anno traccia la classifica di vivibilità e opportunità di recupero nelle patrie galere, ha promosso il “Luigi Daga” ai vertici: secondo miglior carcere d’Italia, per l’esattezza, quasi a pari merito con quello di Milano-Bollate, il cinque stelle della pena per eccellenza anche se periodicamente afflitto dal sovraffollamento.
Un problema ignoto, a Laureana, che ha 68 posti ma solo trenta ospiti, per ora, perché è vero che bidè e doccia in cella sono roba di lusso, ma le regole rigide mettono paura. Chi sgarra dal patto firmato, chi fa il mafioso, turba l’armonia o torna dai permessi drogato e ubriaco, viene rispedito nella galera da cui è venuto. Senza appello.
«Qualcuno finge, convinto che qui si ottengano benefici e liberazioni anticipate. È una sciocchezza: la legge resta uguale per tutti» puntualizza la giovane direttrice Angela Marcello, che conosce ogni storia nei dettagli. Non nasconde i fallimenti, e allude a qualche resistenza del ministero: «È più facile custodire un criminale che mettersi nell’ottica di riabilitare una persona. Qui s’imparano dei mestieri: tanti non avevano mai lavorato prima e scoprono in carcere, paradossalmente, cosa significa costruirsi una vita normale».
Pietro T. no, lui lavorava fuori. A 25 anni era già emigrato al Nord e aveva la sua piccola impresa. Durante le ferie giù al paese si è ritrovato omicida davanti a un autolavaggio: una stupida lite, una maledetta arma addosso. Ha rischiato di attendere il fine pena chiuso 23 ore al giorno con altri otto cristiani, nel carcere di Vibo Valentia, finché ha sentito di Laureana. Ed eccolo qui a modellare vasi di ceramica, garbato e preciso: «La reclusione la accetti, quando hai un’enorme colpa da pagare» confida «ma solo qui comincio a pensare di avere ancora un futuro».
Carmelo C., 28 anni, prende l’autobus ogni mattina per studiare da orafo a Palmi. Aveva un’oreficeria a Bagnara Calabra, è un artista anche nell’aria sognante e infantile. «Bello il tuo bracciale, io lo farei in due ore» e mi mostra come realizzerebbe le decorazioni e la chiusura a cerniera sul mio polso. Si dice innocente, condannato per concorso in omicidio ma innocente, e se li farà tutti i dodici anni perché «se un muro non lo puoi spostare è inutile che continui a sbatterci. Nel frattempo mi prendo il diploma. Questo conta».
Antonio e Roberto mi offrono un altro caffè. In dieci anni hanno girato tutti i penitenziari della Calabria, sempre insieme. Antonio racconta di un pestaggio, di un braccio spezzato: «In galera dormi con un occhio aperto, ti trasferiscono nel cuore della notte e non sai mai il perché di nulla. Qui è un’altra vita».
È vero: qui non avverto quella noia livida e gorgogliante che in altre carceri mi ha fatto desiderare l’uscita, in fretta. Qui i detenuti non si lagnano, non si proclamano vittime di uno Stato che, una volta liberi, sarà un avversario ancora più ingiusto e odiato. Lavorano e guadagnano, poche centinaia di euro ma qualcosa a casa mandano.
E a chi trova assurdo trattare assassini, ladri e rapinatori alla stregua di educandi, risponde la logica dell’utilità: «Ogni detenuto costa alla collettività 128 euro al giorno. È interesse di tutti che i nostri soldi siano spesi bene, restituendo al mondo persone con nuove risorse che le tengano lontane dalla delinquenza» argomenta Paolo Quattrone, provveditore alle carceri della Calabria, tornato nella sua regione dopo anni altrove.
Ha trovato «un sistema penitenziario allo sfascio» scandisce, ma ormai nelle sue altre undici galere lavora un detenuto su tre, e fra gli istituti sta nascendo una filiera industriale che assicura la manutenzione degli edifici: si risparmia denaro pubblico, si riduce l’ozio in cella, si allevano meno recidivi. «Sono pochi i criminali incalliti, sa? L’uomo della pena è diverso dall’uomo del delitto. E a Laureana abbiamo solo scoperto l’acqua calda: tutte le carceri dovrebbero essere così».
Molti, a fine pena, chiedono aiuto per trasferirsi lontano. Al riparo dalla legge delle ’ndrine che aspetta là fuori, oltre il cancello nel verde e la statua della Madonna che pare una guardiana.
C’è la cima ancora bianca dell’Etna, oltre il mare arrabbiato dello Stretto, e pazienza che lo sguardo debba farsi largo tra le sbarre. Se fosse capitato a Laureana di Borrello, in Calabria, il Raskolnikov di Delitto e castigo avrebbe preteso un supplemento d’afflizione. E anche il comandante Antonio Schipilliti, che non è un personaggio letterario ma uno che è stato fra i detenuti del 41 bis e ha aneddoti da vendere su Totò Riina, in questa galera che pare un collegio cessa di sentirsi carceriere e si concede larghi sorrisi, offrendomi dolcetti alla mandorla dopo il caffè - ottimo - sorseggiato in cella con i detenuti.
Strano che l’avanguardia del trattamento carcerario in Italia appartenga a un paesino calabrese famoso per l’esecuzione di una bambina con sette spari in faccia, nel 1989. Sta qui per questo la casa di reclusione “Luigi Daga”, inaugurata tre anni fa a Laureana di Borrello. Per sfidare la cultura della violenza nella sua culla: la piana di Gioia Tauro, cuore della ’ndrangheta borghese dei Piromalli e dei Molè, oggi ricchissima grazie alla droga che transita dal grande porto.
E questo è un carcere-scuola di vita per giovani al primo reato, nella provincia di Reggio Calabria dove la disoccupazione supera il 16 per cento e le ’ndrine contano cinquemila affiliati, un decimo della popolazione.
Negli altri penitenziari calabresi la voce già cammina: non chiedete il trasferimento a Laureana, faranno di voi degli infami, cioè dei pentiti. «È falso ma va bene così, significa che la ’ndrangheta teme la nostra concorrenza: le sottraiamo manovalanza» sorride Mario Nasone, assistente sociale e funzionario del ministero della Giustizia a Reggio. È sua l’idea di un carcere a custodia attenuata per giovani adulti, esperimento unico in Italia e rarità anche in Europa. Una casa di rieducazione simile a una comunità, come ne esistono per i detenuti tossicodipendenti «ma non per quelli ammalati di ’ndrangheta» sottolinea Nasone. Perché se una terra in bilico come la Calabria fatica a togliere appeal al crimine, può almeno impedire che il carcere lo moltiplichi.
«La galera, da noi, è l’università della delinquenza: un giovane alla prima detenzione viene studiato dai boss, coltivato, messo alla prova e infine reclutato» osserva Nasone. «È una balla che i nostri giovani scelgono l’illegalità perché manca il lavoro: cercano figure di riferimento, l’appartenenza a qualcuno e a qualcosa. E nel vuoto dei paesi, la ’ndrangheta fa presto ad accreditarsi».
Tra questi edifici verdi e panna, invece, accade che l’orizzonte si dilati. Al “Luigi Daga” entra chi ha meno di 34 anni (come la metà dei detenuti calabresi), viene dalla regione, è al primo reato, anche se grave come l’omicidio («Con le pene lunghe lavoriamo meglio: c’è più tempo» dice Nasone), e intende davvero cambiare rotta. Tanti arrivano dal carcere minorile, risparmiandosi il battesimo della violenza nelle galere qualsiasi.
Si passa una selezione e si firma un patto, impegnandosi a lavorare alle dipendenze del ministero della Giustizia e a osservare regole che, alla fine, restituiranno uomini svuotati dalla voglia e dal bisogno di delinquere. Il mezzo è il lavoro, merce rara nei penitenziari italiani, dove per tre quarti dei detenuti le giornate se ne vanno in branda fabbricando barchette con gli stuzzicadenti e collezionando livore.
Qui, in cambio di celle a due letti aperte fino a sera, si diventa falegnami e ceramisti, si coltivano piante grasse nelle grandi serre sulla collina, tutti prodotti che arrederanno gli uffici dell’amministrazione penitenziaria. C’è la palestra, il cinema in dvd al sabato, i corsi di computer, le sedute di autocoscienza. Prigionia d’alta qualità, invidiabile per gli altri 1.400 detenuti di Calabria stipati in celle da sei, nove, quindici letti, e pure per il resto della popolazione carceraria italiana.
L’associazione Antigone, che ogni anno traccia la classifica di vivibilità e opportunità di recupero nelle patrie galere, ha promosso il “Luigi Daga” ai vertici: secondo miglior carcere d’Italia, per l’esattezza, quasi a pari merito con quello di Milano-Bollate, il cinque stelle della pena per eccellenza anche se periodicamente afflitto dal sovraffollamento.
Un problema ignoto, a Laureana, che ha 68 posti ma solo trenta ospiti, per ora, perché è vero che bidè e doccia in cella sono roba di lusso, ma le regole rigide mettono paura. Chi sgarra dal patto firmato, chi fa il mafioso, turba l’armonia o torna dai permessi drogato e ubriaco, viene rispedito nella galera da cui è venuto. Senza appello.
«Qualcuno finge, convinto che qui si ottengano benefici e liberazioni anticipate. È una sciocchezza: la legge resta uguale per tutti» puntualizza la giovane direttrice Angela Marcello, che conosce ogni storia nei dettagli. Non nasconde i fallimenti, e allude a qualche resistenza del ministero: «È più facile custodire un criminale che mettersi nell’ottica di riabilitare una persona. Qui s’imparano dei mestieri: tanti non avevano mai lavorato prima e scoprono in carcere, paradossalmente, cosa significa costruirsi una vita normale».
Pietro T. no, lui lavorava fuori. A 25 anni era già emigrato al Nord e aveva la sua piccola impresa. Durante le ferie giù al paese si è ritrovato omicida davanti a un autolavaggio: una stupida lite, una maledetta arma addosso. Ha rischiato di attendere il fine pena chiuso 23 ore al giorno con altri otto cristiani, nel carcere di Vibo Valentia, finché ha sentito di Laureana. Ed eccolo qui a modellare vasi di ceramica, garbato e preciso: «La reclusione la accetti, quando hai un’enorme colpa da pagare» confida «ma solo qui comincio a pensare di avere ancora un futuro».
Carmelo C., 28 anni, prende l’autobus ogni mattina per studiare da orafo a Palmi. Aveva un’oreficeria a Bagnara Calabra, è un artista anche nell’aria sognante e infantile. «Bello il tuo bracciale, io lo farei in due ore» e mi mostra come realizzerebbe le decorazioni e la chiusura a cerniera sul mio polso. Si dice innocente, condannato per concorso in omicidio ma innocente, e se li farà tutti i dodici anni perché «se un muro non lo puoi spostare è inutile che continui a sbatterci. Nel frattempo mi prendo il diploma. Questo conta».
Antonio e Roberto mi offrono un altro caffè. In dieci anni hanno girato tutti i penitenziari della Calabria, sempre insieme. Antonio racconta di un pestaggio, di un braccio spezzato: «In galera dormi con un occhio aperto, ti trasferiscono nel cuore della notte e non sai mai il perché di nulla. Qui è un’altra vita».
È vero: qui non avverto quella noia livida e gorgogliante che in altre carceri mi ha fatto desiderare l’uscita, in fretta. Qui i detenuti non si lagnano, non si proclamano vittime di uno Stato che, una volta liberi, sarà un avversario ancora più ingiusto e odiato. Lavorano e guadagnano, poche centinaia di euro ma qualcosa a casa mandano.
E a chi trova assurdo trattare assassini, ladri e rapinatori alla stregua di educandi, risponde la logica dell’utilità: «Ogni detenuto costa alla collettività 128 euro al giorno. È interesse di tutti che i nostri soldi siano spesi bene, restituendo al mondo persone con nuove risorse che le tengano lontane dalla delinquenza» argomenta Paolo Quattrone, provveditore alle carceri della Calabria, tornato nella sua regione dopo anni altrove.
Ha trovato «un sistema penitenziario allo sfascio» scandisce, ma ormai nelle sue altre undici galere lavora un detenuto su tre, e fra gli istituti sta nascendo una filiera industriale che assicura la manutenzione degli edifici: si risparmia denaro pubblico, si riduce l’ozio in cella, si allevano meno recidivi. «Sono pochi i criminali incalliti, sa? L’uomo della pena è diverso dall’uomo del delitto. E a Laureana abbiamo solo scoperto l’acqua calda: tutte le carceri dovrebbero essere così».
Molti, a fine pena, chiedono aiuto per trasferirsi lontano. Al riparo dalla legge delle ’ndrine che aspetta là fuori, oltre il cancello nel verde e la statua della Madonna che pare una guardiana.
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