UN COLLEGIO PER I FIGLI DELLA 'NDRANGHETA
La prima bambina aveva il cognome di un boss di Platì. Ora sono settanta gli ospiti dell’istituto creato dall’ostinazione di suor Maria Grazia. Una custodia spesso voluta dalle famiglie. Per crescere i ragazzi lontano dalla ’ndrangheta e dal destino dei padri
«Cu site? Chi vulìti? Undi ite?». La vedetta è un bambino imbronciato con le scarpe zuppe di fango. Avrà cinque anni. Si para davanti alle due donne appena scese dall’auto e le blocca con piglio minaccioso. Un ragazzo più grande appare dal nulla: «Lassale, du colleggio sono». Marcella e Maria sorridono. Salutano. Cominciano il giro in paese sapendo che impiegheranno ore a trovare la famiglia che cercano. Perché a Platì c’è una sola legge che nessuno viola, mai: non riferire a un forestiero il nome del tuo vicino. «Nun lo sapìmo» è la cantilena collettiva, recitata con uno stupore da teatro dell’assurdo in questo paese di 3.800 anime dove incontri solo vecchi che abitano qui da sempre.
Ai loro sguardi obliqui sono abituate Marcella e Maria, che restano forestiere anche se dal "colleggio" percorrono spesso l’unica strada che s’infila in questo anfratto di Aspromonte, e da molto prima che fosse ribattezzato “la capitale della ’ndrangheta”. La fondazione per cui lavorano, l’Unitas Catholica di Reggio Calabria, ha cominciato cinquant’anni fa a riempirsi dell’infanzia della Locride. La prima bambina di cognome faceva Sergi, potente clan della zona.
Ancora oggi, su questa altura ventosa che abbraccia lo stretto, arrivano da piccoli e stanno fino alla maggiore età, a volte oltre, per finire gli studi e convincersi che i confini del mondo travalicano il Medioevo violento in cui sono nati. Un luogo dove la droga non uccide le persone, ma le fa campare. Dove i bar sono vietati alle donne e la chiesa agli uomini. Dove si arriva alle medie senza saper scrivere e le adolescenti vivono nel terrore di padri-padroni, come ci ha confidato una di loro, bella come un’attrice: «La mia più grande paura è che mi innamoro di un carabiniere. Mio padre lo ammazza. O ammazza me».
Non ci pensava proprio ai figli della mafia, suor Maria Grazia Gallingani, quando, diciottenne, è venuta dall’Emilia al sud e ha messo su una casa nel quartiere Fondo Versace, dove all’epoca i mali peggiori erano prostituzione e miseria. «Finché una notte la polizia ci ha portato 14 bambini» racconta. «C’erano stati parecchi omicidi. Di lì a poco i bambini sono diventati cento, e mancava sempre l’acqua». Lei, minuta e forte come un uomo, andava a pulire il mercato per avere frutta e verdura gratis, e intanto la casa cresceva di quattro piani. Anche grazie - la suora non lo nasconde - all’aiuto dei boss, riconoscenti per la cristiana custodia dei figli.
Oggi l’Unitas Catholica impiega 19 persone e una trentina di volontari, tutti laici, e ha pure la certificazione di qualità. Ma resta uno di quegli istituti per minori che, per legge, dovevano chiudere entro il 2006 lasciando il campo a comunità più raccolte.
Oltre a 31 ragazzi che vanno a dormire a casa, in città, gli ospiti fissi dalla Locride sono 45, dai due anni in su. Per suor Maria Grazia, però, la Regione studia una via di sopravvivenza: «Si è specializzata in situazioni troppo particolari» dice il dirigente regionale alle Politiche sociali, Antonino Bonura. «Riportare quei ragazzi a Platì significherebbe perderli». Sono figli di vittime e carnefici, di latitanti e della lupara bianca, dei signori della droga che vanno e vengono dall’Australia e dei pesci piccoli che entrano ed escono di galera. «Abbiamo i grandi, modestamente: i Barbaro, i Trimboli…» sorride Marcella Ritto, assistente sociale. «Sulla carta sono tutti braccianti agricoli o disoccupati, con case che paiono catapecchie. Poi entri e trovi pomelli d’oro, marmi dell’India, vasche Jacuzzi. Sono le stesse famiglie a portarci i figli» rivela. «Desiderano una vita diversa per loro. Li sognano laureati, professionisti rispettabili, per allontanarli da una terra intrisa di illegalità».
Già, perché a Platì «le cosche controllano anche il respiro» diceva il magistrato Nicola Gratteri, quando da procuratore antimafia aveva guidato l’operazione “Marine” del 13 novembre 2003: 125 arresti, compresi ex sindaci, funzionari comunali e vigili urbani. Ed era già venuta alla luce la “metropolitana di Platì”: un chilometro e mezzo di cunicoli sotterranei - usati prima per nascondere le vittime dei sequestri e poi per custodire i boss - scavati con soldi del Comune alla voce «valorizzazione area latitanti».
Quando chiediamo a Giusy «com’è vivere a Platì?» lei ci scherza: «Platì di sopra o Platì di sotto?». Giusy vive all’Unitas Catholica da quando aveva otto anni, e anche adesso che ne ha trenta, e si occupa delle ragazze, fatica a tirar fuori il motivo per cui è stata portata qui. Accenna che la sua vecchia casa stava sopra a un reticolo di tunnel, e crede che se fosse rimasta al paese oggi non starebbe per laurearsi in Scienze della formazione. È una specie di tradizione, fra gli ospiti: chi crede nello studio come unica strada per un futuro, resta e diventa informalmente educatore per piccoli. «Noi li comprendiamo, anche senza parole» spiega Giusy. «Sono il nostro specchio».
Alla gente di Platì basta un certificato di povertà, per ottenere dal giudice tutelare di sistemare qui i figli. L’istituto riceve dagli enti pubblici 11 euro al giorno per ragazzo, «al resto ci pensa la Provvidenza» dice suor Maria Grazia, mostrando una dispensa zeppa di cibo regalato. «Cosa diciamo ai ragazzi? Che sono qui per studiare» chiarisce Marcella. «Non è un rapporto semplice: dobbiamo insegnare il rispetto per i genitori ma dissuaderli dall’imitarli. Per i maschi è un vanto appartenere a una famiglia mafiosa. E non si spiegano perché a casa hanno motorino e abiti firmati, mentre qui indossano abiti dismessi da altri».
L’istituto ha un piccolo parco e due edifici, uno per l’asilo, frequentato dai bimbi del quartiere, e l’altro per gli ospiti, che vanno a scuola fuori: maschi e femmine separati e distribuiti su quattro piani a seconda dell’età. Dormono in due per stanza, i bagni e i salottini in comune. Come un collegio arredato a peluche e poster del Milan, dove lo studio lascia poco tempo ai cattivi pensieri. Prima di cena i ragazzi giocano a basket in palestra. S’interrompono poco volentieri per chiacchierare.
Di Angelo, che ha 15 anni e vuole fare il dentista «perché si guadagna bene», sappiamo che il padre è scomparso nel nulla anni fa. La madre s’è inventata una carcerazione all’estero, finché non ha retto la menzogna. Angelo è ancora sotto shock. «Se vivevo a Platì, a quest’ora ero al carcere minorile» butta lì. E tace. «Al paese non c’è niente » interviene Pasquale, il più grande, iscritto ad Agraria e “sorvegliante” dei compagni. «Però c’è la famiglia». «Inculcare la legalità è una scommessa» spiega Mimmo Errico, uno dei pochi educatori professionali, cresciuto nel quartiere di Archi, altra zona ad alto rischio. «Che fa lo Stato per loro? Manda i carabinieri a circondare il paese, così voi del nord siete contenti, e poi scompare». L’esempio di Mimmo è eloquente: «Tempo fa hanno ricevuto degli orologi con lo stemma dei carabinieri. Li hanno rifiutati».
I ragazzi vanno a casa due domeniche al mese. «Uno è tornato con un telefonino e ha passato la notte a tenere i contatti, tramite sms, due delinquenti» ricorda la suora per spiegare la sua regola fuori dal tempo: qui è vietato il cellulare. Una privazione che proprio non va giù, soprattutto alle ragazze del liceo. «Ci fa diverse» mugola Rita, occhi magnetici e velati di rabbia, 16 anni di cui metà passati qui con il fratellino. «Le compagne non ci invitano alle feste perché non possiamo uscire la sera, e se c’è uno che ci piace, come comunichiamo?». Rita è brava a scuola. Diventerà pediatra e abiterà a Roma, per dimenticare un padre «geloso e morboso» che per anni ha incontrato solo in galera. E per mettere fine a questa che vive come un’ingiusta prigionia: «Quando i miei figli mi chiederanno “mamma, che facevi da ragazza?”, non avrò niente da raccontare».
Meglio così, Rita. Una giovinezza a Platì sarebbe finita troppo presto, per aver voglia di raccontarla.
Con questo articolo, pubblicato da Io donna, ho vinto il Premio Giornalistico della Fondazione Benedetta d'Intino sui diritti dell'infanzia, edizione 2006
Molto bello l articolo, mi torna in mente la mia infanzia e riporti dei nomi molto familiari.mi fa tanto piacere che a Reggio ci sia ancora in funzione questo meritevole e grazioso istituto.
RispondiEliminaGrazie per questo tuffo nel passato,e un grazie Speciale a chi lavora per migliorare la realtà e da speranza a chi ne ha bisogno,continuate cosi Unitas Catholica