COM'E' FATTO UN RAZZO QASSAM?



Così. Il modello piccolo, che da Gaza arriva al massimo fino a Sderot.
A maggio ero a Gaza, già allora si attendeva da un momento all'altro l'attacco israeliano. Si parlava di massiccia operazione di terra.
Vorrei sapere come sta Areej Atalla, che abitava a Beit Hanoun, quasi a ridosso del valico di Erez, a nord della Striscia, “ma eravamo troppo sotto tiro, troppo pericoloso" mi spiegava, "così ci siamo trasferiti nel campo profughi di Jabalya, più vicino a Gaza City“. Jabalya, la grande fabbrica dei razzi qassam.


Areej è una ragazza di 24 anni dalla bellezza intensa, sotto l’hijab che le incornicia il volto, ed è soprattutto un ingegnere informatico che parla un ottimo inglese e lavora per Coopi, un'organizzazione umanitaria italiana. Quel pomeriggio ha insistito perché andassi a casa sua, a Jabalya. Mi ha offerto caffè al cardamomo e le albicocche più buone che abbia mai mangiato in vita mia.
Mi ha fatto conoscere con orgoglio la sua vecchissima nonna, una matrona silenziosa e sorridente con due vivaci e insoliti occhi azzurri chiarissimi. Mi ha presentato il padre, che era stato sospettato di terrorismo e incarcerato per dieci anni. Mi ha confidato i suoi dubbi, le sue riflessioni. Senza sputare odio sugli israeliani, senza tiritere ideologiche imparate a memoria (come quelle che ho invece ascoltato dalle giovani giornaliste di Al Alqsa Tv, la televisione di Hamas).
Areej era solo una ragazza di 24 anni che lotta tra il desiderio naturale di progettare il suo futuro e la sensazione che per lei un futuro non esista.

“A volte io non mi sento più un essere umano” diceva . “Il mondo ha chiuso gli occhi sulla gente di Gaza. Non puoi immaginare quanto sia stressante sapere di essere imprigionati qua dentro, come in una trappola per topi. Alla tv si parla di Olimpiadi, di festival del cinema, e io dove sono? Vivo su un altro pianeta. Futuro è una parola sempre più confusa, impalpabile. Mi aggrappo ai miei sogni: frequentare un master ad Harvard, diventare una donna in carriera, emancipata ma sempre profondamente musulmana quale sono, avere dei figli. Poi guardo il cielo e mi chiedo: sarò io la prossima a morire?“.
Alle 17 Areej, con grande allegria, mi ha offerto un meraviglioso pranzo in un ristorante nel centro di Gaza City. Eravamo gli unici clienti, abbiamo mangiato fino a scoppiare, come in un giorno di festa.
E' strano, mi ha ricordato quel pranzo che si vede nel film Nosferatu il principe della notte: tutta la popolazione della piccola città del vampiro si riunisce in piazza a mangiare mentre imperversa la peste nera, tra i piatti corrono i topi, cambia la fotografia e al tavolo sono scomparsi gli esseri umani, solo i topi restano. Era la festa finale.

C'era un unico luogo a Gaza che mi rifocillava dalle lunghe giornate in quella prigione a cielo aperto. La terrazza dell’hotel Aldeira, dove in genere alloggiano i giornalisti stranieri. Non io, ma ci andavo al tramonto.
Da quella terrazza sul mare il tramonto ti abbraccia, ti coccola. Un gruppo di ragazze senza velo chiacchiera e ridacchia mangiando grandi coppe di gelato. Un giornalista straniero batte sulla tastiera del computer. Un giovane legge un libro di Dan Brown sorseggiando un’aranciata.

Il mare è rosso come il cielo.
E ci si può estraniare.
Fingere di essere altrove.

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