CHE FINE HA FATTO IL DARFUR?


A metà febbraio dovrebbe scattare il mandato d'arresto disposto dalla Corte penale internazionale per Omar Hassan al Bashir, presidente del Sudan, per i crimini di guerra commessi negli ultimi anni nella regione occidentale del Darfur. C'è però un compatto fronte di Paesi arabi, africani e asiatici Cina compresa, la migliore amica di Bashir - che difendono il presidente per interessi politico-economici. Per il suo petrolio, insomma.
Un reportage che ho scritto qualche tempo fa dal Ciad orientale, al confine col Darfur. La cui disperazione è ancora più dimenticata.


L’ultima immagine rimasta negli occhi di Abdullah Idris Zai è una malabolgia di fiamme, urla, stupri, proiettili. Erano gli arabi janjaweed con pugnali e kalashnikov, novembre 2006. Abdullah produceva olio d’arachidi a Djorlo, nel sudest del Ciad. Sapeva delle scorribande dei predoni sudanesi che insanguinano il Darfur al soldo del governo di Khartoum: non era la prima volta che violavano la frontiera molle con il Ciad. Abdullah possedeva solo frecce per difendersi: svuotata la faretra, si rannicchiava a ricevere gli spari confidando nel suo gri-gri, l’amuleto di erbe magiche e versetti del Corano che portava appeso al collo.



«Ero invulnerabile alle pallottole» scandisce grave accanto alla sua capanna d’erba secca nel campo per sfollati di Gouroukoun. Un giovane di 27 anni in tunica bianca, altissimo e bello come quelli della sua etnia, i dajo pacifisti che da due anni sono schiacciati come insetti in questa zona d’ombra poco distante dai riflettori accesi sul Darfur. Abdullah ha le palpebre cucite per sempre sulle orbite vuote: il gri-gri aveva potere sui proiettili ma non sulla lama del demone a cavallo che gli ha cavato gli occhi. E lui, persi i sensi, è stato buttato tra i cadaveri. «Non so chi mi ha portato qui. Un chirurgo bianco mi ha salvato». E non invoca la legge del taglione, solo una giustizia che non abita nel regno del caos.
Adam Alì invece giura vendetta a chi lo ha reso storpio e inutile a 25 anni: «Lo torturerei per sapere perché gli arabi incendiano i nostri villaggi, rubano le bestie e ci vogliono tutti morti». Fatima Abdrahaman che ha visto morire di sete decine di neonati nei giorni di cammino per mettersi in salvo, prova a dimenticare aiutando a partorire le altre sfollate e accontentandosi, in cambio, di piccoli bracciali che la fanno sentire ancora una donna.

C’è una massa di persone che si chiede perché in questo ricettacolo di ricordi orrendi che si chiama Goz Beida, un polveroso paese del Ciad sud-orientale, regione del Ouaddai, immerso nel sahel rosso di sabbia e verde di alberi del sapone, a poche decine di chilometri dal Darfur.
I cinquemila abitanti, coltivatori di miglio e sorgo, dal 2003 si sono visti circondare dai réfugiés darfuriani, oltre 15 mila nel grande campo di Djabal, e poi da 75 mila déplacés dello stesso Ciad: il più grande esodo dei dajo è stato nell’aprile del 2007, 400 morti e tremila in fuga dai massacri di Tiero e Marena. «Il nostro ospedale scoppiava» ricorda Ambrogio Sangalli, il chirurgo bianco di Milano che ha salvato il giovane senza occhi e da dieci anni ha il fegato di vivere a Goz Beida («Era il posto più tranquillo della terra...»), dove con l’organizzazione italiana Coopi fa funzionare l’ospedale locale. «Prima della crisi del Darfur solo noi lavoravamo qui. Nel 2003 sono iniziati i cortei di profughi e l’anno scorso, quando la situazione sembrava stabile, è scoppiata l’emergenza degli sfollati interni».

A Goz Beida sono accorse una trentina di organizzazioni umanitarie, da tutto il mondo. Il Programma alimentare mondiale fornisce cibo e aerei da N’Djamena, gli unici mezzi per arrivare fin qui. L’Alto commissariato Onu per i rifugiati spende 70 milioni di dollari l’anno per i 12 campi in territorio ciadiano dei disperati del Darfur, 265 mila spettri lungo 500 chilometri di frontiera. Echo, apparato umanitario della Commissione Europea, nel 2007 ha stanziato 30 milioni di euro per i déplacés ciadiani ormai a quota 180 mila. Il loro quartier generale sta ad Abeche, la cittadina tetra di cui il mondo ha scoperto l’esistenza con lo scandalo dell’Arche de Zoè che tentava di portare illegalmente in Francia 103 bambini.
Un crocevia di disperazione, baricentro di una crisi internazionale che si mischia a tensioni nazionali confondendo cause ed effetti.
Le interviste ufficiali con i funzionari di Onu ed Echo sono abbottonate e deludenti: non possono esprimersi sulla politica, ripetono «la situazione è complessa» per tre spinte sanguinarie che si coagulano nell’Est del Ciad: la crisi del Darfur che esporta i blitz cruenti dei janjaweed; gli atavici scontri locali fra etnie arabe e africane; i ribelli dalle tante sigle (Cnt, Ufdd, Fuc...) che si oppongono al presidente-dittatore Idris Déby Itno, al potere dal ’90 con l’appoggio della Francia che nell’ex colonia mantiene un’imbarazzante guarnigione di 1.100 soldati.

Il Ciad figura in fondo alla classifica dello sviluppo e in cima a quella della corruzione. La Banca Mondiale era stata generosa con la nascente economia del petrolio, a patto che un decimo delle royalties fosse investito per il progresso sociale: Déby ha speso tutto in armamenti, accusando il vicino governo sudanese di fomentare i ribelli ciadiani.
Secondo fonti istituzionali che chiedono l'anonimato, il presidente beneficia del dramma in Darfur reclutando adolescenti affamati tra i profughia Goz Beida. Quanto ai massacri lungo i confini, si ipotizza che li abbia scatenati lo stesso esercito governativo per annientare le etnie rivali e creare una situazione esplosiva che ha autorizzato Déby a reclamare la Minurcat, la forza di pace di 4.000 uomini a maggioranza francese promessa al Ciad da Onu e Unione Europea. La Minurcat dovrebbe favorire il rientro sicuro degli sfollati ciadiani nei loro villaggi, ma rischia di fare da scudo a Déby contro i ribelli e di cementare la posizione francese nell’ex colonia. I paramilitari dell’Ufdd hanno già dichiarato guerra a questo “esercito straniero”.
«Gli sfollati invece confidano nella Minurcat per tornare a casa» spiega Antonio Zivieri, capo della base di Coopi a Goz Beida, che coordina uno staff di oltre 300 italiani, congolesi e ciadiani. Nei suoi dieci anni di lavoro in questo deserto invaso da cavallette, Coopi è diventata la più grande organizzazione sanitaria dell’Est del Ciad: gestisce gli ospedali per i profughi darfuriani e gli sfollati interni, ha due chirurghi capaci di operare con la torcia in bocca quando manca la corrente, distribuisce cibo per i bambini malnutriti.
E’ con questi infermieri e medici che abbiamo vissuto roventi giornate scandite dai coprifuoco per l’avanzata dei ribelli e dalle emergenze in ospedale: un militare adolescente ferito, parti rischiosi perché le donne sono tutte escisse, malattie respiratorie fra i bambini ed epidemie di epatite E, virus sconosciuto in Europa che qui miete vittime a grappoli.
«L’unico momento di tensione con la gente di Goz Beida è stato quando i giovani pretendevano lavoro dalle organizzazioni umanitarie» aggiunge Zivieri. E anche la regina Aicha Achech, moglie dell’anziano sultano che ha ceduto il trono al figlio ventiduenne per delicati equilibri tribali, sottolinea che «gli autoctoni non hanno beneficiato di nulla, e da più di cinque anni condividiamo con i profughi i raccolti, la legna e l’acqua».

Il saggio sultano-padre Seid Brahim, ancora re ombra del figlio, si chiede che ne sarà di Goz Beida quando le masse di disperati saranno rimpatriate, le Ong partite, e il sahel tornerà immobile e dimenticato. Tace su Déby («Madame, non mi metta in difficoltà»), ma mi congeda con uno spunto chiaro:«Dobbiamo chiederci da dove provengono tutte le armi che circolano nel paese».
Quest’area è una miccia accesa. I ribelli e l’esercito regolare hanno ripreso gli scontri, e la tregua firmata in Libia è durata solo fino a qualche giorno fa. Il Ciad è sull’orlo del genocidio, contagio e replica del Darfur ma senza riflettori. «Tutti parlano del Darfur e nessuno sa di noi» s’infervora Adam Moursal, tre mogli e 15 figli, che nel suo villaggio Koley possedeva mulini e frantoi. «Cosa vuoi che ne sarà di noi? A chi importa del futuro dei nostri giovani?». Ma tra le capanne dei campi profughi si incontrano solo donne, vecchi, bambini disorientati. I giovani indossano già la divisa mimetica. Al servizio di quale esercito, non sanno.

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