GABBIE DI CONFINE
foto di Francesco Cocco / Contrasto
Siamo i primi a documentare come vivono gli immigrati rinchiusi nel Centro di Gradisca, a due passi dalla Slovenia. Li spediscono qui da Lampedusa. Stanno in cella due mesi. Escono. E tornano clandestini. Fino al prossimo controllo
Ziyad, tunisino piccolo e panciuto, s’appoggia alle sbarre accanto a un borsone verde riempito in fretta e fissa ipnotizzato il foglio che gli hanno piazzato in mano. «Me lo leggi?». Dice che hai cinque giorni per lasciare l’Italia. Se ti riprendono sei nei guai. «Ma io non ho fatto niente. Cioè... Ho fatto una rissa a Milano, mi hanno mandato da San Vittore a qui. La pena l’ho finita». Sei irregolare, Ziyad, non puoi restare. Fossi partito ieri, ti avrebbero risparmiato tanti giri spedendoti indietro direttamente dal barcone. Lui squadra il cancello che sta per aprirsi sullo stradone ventoso. «Bel casino». Che farai? «Vado a Milano da mio cugino, poi vedo».
Sono rimasti due indiani, lunghi e frastornati. «Torniamo in treno a Siderno, ci metteremo due giorni» dice il più loquace. «Piacere, Nagesh». Da quanto abitate in Calabria? «Nove anni». Il lavoro? «Nei campi. In nero». Ah. Nove anni senza un controllo di polizia? «Signora, l’Italia è così!» ride Nagesh. Gli consegnano 144 euro mandati dal fratello, i due sollevano i loro sacchi di plastica gialli e salutano. «Forse andiamo in Spagna, l’Italia è dura. Basta non rivedere questo posto».
Il senso del posto che li ha rinchiusi per due mesi e oggi li congeda con un pezzo di carta tanto minaccioso quanto facile da stracciare, resta oscuro a Nagesh, Ziyad e agli altri 12 clandestini che vediamo uscire dal Cie, il Centro di identificazione ed espulsione (fino a un anno fa si chiamavano più cortesemente Cpt, Centri di permanenza temporanea) di Gradisca d’Isonzo. È a pochi chilometri da Gorizia questa Lampedusa del Nordest, antica roccaforte della Serenissima contro le incursioni turche, che dal 2006 vive un curioso contrappasso: gli “invasori” ora sono dentro, fra le mura color panna dell’ex caserma Polonio sulla statale 305. Nei giorni della bufera politica sui barconi respinti e sul disegno di legge che rende la clandestinità reato e prolunga da 60 a 180 giorni il fermo degli irregolari in questi Centri di dubbie umanità e utilità (cavallo di battaglia della Lega, che aveva sfiorato la rottura con il Pdl dopo la bocciatura di aprile nel decreto sicurezza), Io donna è la prima testata a fotografare il più grande contenitore di clandestini in Italia, dopo Ponte Galeria a Roma, con 248 posti.
Paradosso dimensionale, in un paesino di 6.400 abitanti. Proiettore di fantasmi, in una terra di confine «ferita dall’odio tra italiani e sloveni, dalle foibe, dai campi di concentramento, dalla frontiera che è stata l’ultima in Italia a essere smilitarizzata» riflette Andrea Bellavite, il prete giornalista di Gorizia che diede scandalo rinunciando alla tonaca per la politica. Era tra gli organizzatori dell’unica grande manifestazione contro l’apertura del Centro, nel 2005: «È difficile mobilitare la gente: non c’è aggregazione, i giovani vanno via. Non a caso lo hanno costruito qui, l’ultimo Cie». Non lo volevano gli enti locali né le associazioni per i diritti civili, tanto meno gli abitanti di Gradisca che accarezzavano sogni di rilancio turistico. Le proteste tacciono da un pezzo, la macchina del Cie funziona a pieno ritmo con arrivi continui da Lampedusa e dagli altri nove Cie d’Italia: mentre scriviamo, a Gradisca i clandestini sono pochi, 125, ma i numeri fluttuano da un giorno all’altro in questa che non è una galera pur avendone tutta l’aria. Letti, sedie e tavoli inchiodati al pavimento affinché a nessuno venga in mente di brandirli come armi. Campo da calcio sigillato da una rete metallica come una grottesca voliera. Recinto alto più di tre metri con 20 poliziotti e 13 militari in mimetica schierati attorno.
Nel cortile attiguo alle camerate, mentre tanti a mezzogiorno dormono perché non c’è granché da fare, si vedono i perimetri delle gabbie levate dopo la missione dell’inviato Onu Staffan De Mistura: l’effetto leoni al circo era troppo. Tunisini, marocchini e nigeriani in tuta e ciabatte tirano calci al pallone. Khalid, 32enne di Tangeri, è rassegnato: «Pensa, mi hanno portato qui da Livorno e avevo un’auto e tre agenti tutti per me». Tornerà in Marocco, assicura: «Non me la sento di vivere qui nel terrore di essere irregolare». Il ministero dell’Interno ha stanziato 139 milioni di euro per i Cie, e a Gradisca ogni “trattenuto” (così li chiamano, e guai a parlare di detenuti con i funzionari della prefettura) costa 42 euro al giorno. La gestione è del consorzio Connecting People, che impiega assistenti sociali, medici e mediatori, distribuisce ricariche per cellulari (ammessi purché non scattino foto) e sigarette, nel tentativo di ricreare qui il clima umano che si respira nell’attiguo centro d’accoglienza per una diversa categoria di stranieri: i richiedenti asilo, 117 uomini, sei donne e sette bambini, liberi di uscire fino alle otto di sera.
Il direttore del Cie, Vittorio Isoldi, è un generale in pensione passato dal Libano a questa nuova trincea. «Molti vengono dal carcere, e non sono facili» ammette «in fondo sono tutti dei disperati». A dicembre c’è stata una rivolta, un incendio ha danneggiato la mensa. «Non esageriamo, era una manovra per coprire un’evasione» diluisce il prefetto di Gorizia, Maria Augusta Marrosu, alle prese con fughe continue. Così, mentre si riparla di gabbie e rinforzi alla cinta esterna, loro scappano e scompaiono in altre regioni. Alcuni li riacciuffano con le gambe rotte per il salto dal muro. «È grave l’isolamento della struttura» denuncia Genni Fabrizio dell’associazione “Tenda della pace”, che tiene contatti telefonici con i clandestini ma, come altri attivisti, non può entrare. «Nessuno sa ciò che accade là dentro. Gli immigrati ci hanno riferito un pestaggio dopo una tentata evasione: come possiamo verificare?».
Il prefetto non si sbilancia: «È una gestione pesante. Sono persino riusciti a sgattaiolare fuori da 15 centimetri di sbarre». E se passerà la legge sui 180 giorni nei Cie? «Aumenterà la propensione alla fuga. Sebbene gli attuali due mesi siano pochi per identificarli e rimpatriarli». Dei 4.474 clandestini transitati quest’anno nei Cie italiani, solo 1.640 sono stati messi su un volo charter: la maggioranza riceve il minaccioso foglietto da appallottolare.
Per le vie di Gorizia, intanto, si aggirano decine di maghrebini, afgani, nigeriani. Hanno chiesto asilo, ricevuto un no, fatto ricorso in tribunale. Ma nel centro d’accoglienza vicino al Cie si può stare sei mesi, non un’ora di più, e loro, in 110, sono finiti per strada. La Caritas ha trasformato in bivacco, seppur dignitoso, la propria sede e pure i corridoi del dormitorio per i poveri. Don Paolo Zuttion, il direttore, è esasperato: «Ne abbiamo ospitati 620 in un anno, allo Stato sarebbe costato 800mila euro. Il prefetto rifiuta di cercare insieme una soluzione, così la sicurezza va a farsi benedire: questi hanno fame, Gorizia non è Milano, chi glielo dà un lavoro qui?». C’è la coda per la cena. Un clochard italiano urla pretendendo la precedenza sui “negri”. «This is Europe, baby» si volta un nigeriano ridendo.
Pubblicato da Io donna (allegato del Corriere della sera) il 23 maggio 2009.
Siamo i primi a documentare come vivono gli immigrati rinchiusi nel Centro di Gradisca, a due passi dalla Slovenia. Li spediscono qui da Lampedusa. Stanno in cella due mesi. Escono. E tornano clandestini. Fino al prossimo controllo
Ziyad, tunisino piccolo e panciuto, s’appoggia alle sbarre accanto a un borsone verde riempito in fretta e fissa ipnotizzato il foglio che gli hanno piazzato in mano. «Me lo leggi?». Dice che hai cinque giorni per lasciare l’Italia. Se ti riprendono sei nei guai. «Ma io non ho fatto niente. Cioè... Ho fatto una rissa a Milano, mi hanno mandato da San Vittore a qui. La pena l’ho finita». Sei irregolare, Ziyad, non puoi restare. Fossi partito ieri, ti avrebbero risparmiato tanti giri spedendoti indietro direttamente dal barcone. Lui squadra il cancello che sta per aprirsi sullo stradone ventoso. «Bel casino». Che farai? «Vado a Milano da mio cugino, poi vedo».
Sono rimasti due indiani, lunghi e frastornati. «Torniamo in treno a Siderno, ci metteremo due giorni» dice il più loquace. «Piacere, Nagesh». Da quanto abitate in Calabria? «Nove anni». Il lavoro? «Nei campi. In nero». Ah. Nove anni senza un controllo di polizia? «Signora, l’Italia è così!» ride Nagesh. Gli consegnano 144 euro mandati dal fratello, i due sollevano i loro sacchi di plastica gialli e salutano. «Forse andiamo in Spagna, l’Italia è dura. Basta non rivedere questo posto».
Il senso del posto che li ha rinchiusi per due mesi e oggi li congeda con un pezzo di carta tanto minaccioso quanto facile da stracciare, resta oscuro a Nagesh, Ziyad e agli altri 12 clandestini che vediamo uscire dal Cie, il Centro di identificazione ed espulsione (fino a un anno fa si chiamavano più cortesemente Cpt, Centri di permanenza temporanea) di Gradisca d’Isonzo. È a pochi chilometri da Gorizia questa Lampedusa del Nordest, antica roccaforte della Serenissima contro le incursioni turche, che dal 2006 vive un curioso contrappasso: gli “invasori” ora sono dentro, fra le mura color panna dell’ex caserma Polonio sulla statale 305. Nei giorni della bufera politica sui barconi respinti e sul disegno di legge che rende la clandestinità reato e prolunga da 60 a 180 giorni il fermo degli irregolari in questi Centri di dubbie umanità e utilità (cavallo di battaglia della Lega, che aveva sfiorato la rottura con il Pdl dopo la bocciatura di aprile nel decreto sicurezza), Io donna è la prima testata a fotografare il più grande contenitore di clandestini in Italia, dopo Ponte Galeria a Roma, con 248 posti.
Paradosso dimensionale, in un paesino di 6.400 abitanti. Proiettore di fantasmi, in una terra di confine «ferita dall’odio tra italiani e sloveni, dalle foibe, dai campi di concentramento, dalla frontiera che è stata l’ultima in Italia a essere smilitarizzata» riflette Andrea Bellavite, il prete giornalista di Gorizia che diede scandalo rinunciando alla tonaca per la politica. Era tra gli organizzatori dell’unica grande manifestazione contro l’apertura del Centro, nel 2005: «È difficile mobilitare la gente: non c’è aggregazione, i giovani vanno via. Non a caso lo hanno costruito qui, l’ultimo Cie». Non lo volevano gli enti locali né le associazioni per i diritti civili, tanto meno gli abitanti di Gradisca che accarezzavano sogni di rilancio turistico. Le proteste tacciono da un pezzo, la macchina del Cie funziona a pieno ritmo con arrivi continui da Lampedusa e dagli altri nove Cie d’Italia: mentre scriviamo, a Gradisca i clandestini sono pochi, 125, ma i numeri fluttuano da un giorno all’altro in questa che non è una galera pur avendone tutta l’aria. Letti, sedie e tavoli inchiodati al pavimento affinché a nessuno venga in mente di brandirli come armi. Campo da calcio sigillato da una rete metallica come una grottesca voliera. Recinto alto più di tre metri con 20 poliziotti e 13 militari in mimetica schierati attorno.
Nel cortile attiguo alle camerate, mentre tanti a mezzogiorno dormono perché non c’è granché da fare, si vedono i perimetri delle gabbie levate dopo la missione dell’inviato Onu Staffan De Mistura: l’effetto leoni al circo era troppo. Tunisini, marocchini e nigeriani in tuta e ciabatte tirano calci al pallone. Khalid, 32enne di Tangeri, è rassegnato: «Pensa, mi hanno portato qui da Livorno e avevo un’auto e tre agenti tutti per me». Tornerà in Marocco, assicura: «Non me la sento di vivere qui nel terrore di essere irregolare». Il ministero dell’Interno ha stanziato 139 milioni di euro per i Cie, e a Gradisca ogni “trattenuto” (così li chiamano, e guai a parlare di detenuti con i funzionari della prefettura) costa 42 euro al giorno. La gestione è del consorzio Connecting People, che impiega assistenti sociali, medici e mediatori, distribuisce ricariche per cellulari (ammessi purché non scattino foto) e sigarette, nel tentativo di ricreare qui il clima umano che si respira nell’attiguo centro d’accoglienza per una diversa categoria di stranieri: i richiedenti asilo, 117 uomini, sei donne e sette bambini, liberi di uscire fino alle otto di sera.
Il direttore del Cie, Vittorio Isoldi, è un generale in pensione passato dal Libano a questa nuova trincea. «Molti vengono dal carcere, e non sono facili» ammette «in fondo sono tutti dei disperati». A dicembre c’è stata una rivolta, un incendio ha danneggiato la mensa. «Non esageriamo, era una manovra per coprire un’evasione» diluisce il prefetto di Gorizia, Maria Augusta Marrosu, alle prese con fughe continue. Così, mentre si riparla di gabbie e rinforzi alla cinta esterna, loro scappano e scompaiono in altre regioni. Alcuni li riacciuffano con le gambe rotte per il salto dal muro. «È grave l’isolamento della struttura» denuncia Genni Fabrizio dell’associazione “Tenda della pace”, che tiene contatti telefonici con i clandestini ma, come altri attivisti, non può entrare. «Nessuno sa ciò che accade là dentro. Gli immigrati ci hanno riferito un pestaggio dopo una tentata evasione: come possiamo verificare?».
Il prefetto non si sbilancia: «È una gestione pesante. Sono persino riusciti a sgattaiolare fuori da 15 centimetri di sbarre». E se passerà la legge sui 180 giorni nei Cie? «Aumenterà la propensione alla fuga. Sebbene gli attuali due mesi siano pochi per identificarli e rimpatriarli». Dei 4.474 clandestini transitati quest’anno nei Cie italiani, solo 1.640 sono stati messi su un volo charter: la maggioranza riceve il minaccioso foglietto da appallottolare.
Per le vie di Gorizia, intanto, si aggirano decine di maghrebini, afgani, nigeriani. Hanno chiesto asilo, ricevuto un no, fatto ricorso in tribunale. Ma nel centro d’accoglienza vicino al Cie si può stare sei mesi, non un’ora di più, e loro, in 110, sono finiti per strada. La Caritas ha trasformato in bivacco, seppur dignitoso, la propria sede e pure i corridoi del dormitorio per i poveri. Don Paolo Zuttion, il direttore, è esasperato: «Ne abbiamo ospitati 620 in un anno, allo Stato sarebbe costato 800mila euro. Il prefetto rifiuta di cercare insieme una soluzione, così la sicurezza va a farsi benedire: questi hanno fame, Gorizia non è Milano, chi glielo dà un lavoro qui?». C’è la coda per la cena. Un clochard italiano urla pretendendo la precedenza sui “negri”. «This is Europe, baby» si volta un nigeriano ridendo.
Pubblicato da Io donna (allegato del Corriere della sera) il 23 maggio 2009.
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