IL LIBRO DI MARIE LOUISE
VU CUMPRA' A VENEZIA
di Marie Louise Niwemukobwa
AltroMondo editore, 210 pagine, 15 euro
Marie Louise è rwandese ma vive in Italia da tanti anni. L'ho incontrata anni fa per un articolo, era il decennale del genocidio e cercavamo qualcosa di diverso, di non visto sul Rwanda. Qualcosa che avesse a che fare con le storie della gente comune.
Da allora ci siamo sempre tenute in contatto. Così, istintivamente. E' una di quelle persone che sembrano gioire di tutto, che ti paiono fortunate e diverse, per questo.
L'altro giorno mi ha mandato il suo libro, che racconta tante storie di africani a Venezia, soprattutto senegalesi. Giuro che non lo faccio apposta a parlare sempre, in questo blog, di libri che riguardano l'immigrazione. Mi capitano, mi arrivano sulla scrivania. Mi interessano, certo.
So che il lavoro di Marie Louise è stato lungo e voluto. Lei è una danzatrice e una cantante, e qui ha fatto lo sforzo di mettersi a scrivere in italiano perché, nel tempo libero, è volontaria per un'associazione che aiuta le donne immigrate.
Il risultato è fresco, diretto, cronachistico, senza lacrime. Asciutto come solo gli africani sanno essere.
E questo è il mio articolo che parlava di lei.
DANZANDO A PIEDI NUDI PER IL RWANDA
Danza a piedi nudi, istintiva e fluida, i sonagli alle caviglie che accompagnano il ritmo scuro dei tamburi. Allunga le braccia in avanti e poi le raccoglie al petto, come ad afferrare uno spirito invisibile stringendolo a sé.
L’arte di Marie Louise Niwemukobwa è fatta di movenze morbide e convulse, risate ritmiche, litanie insistenti come invocazioni. E di nostalgia. La nostalgia del suo paese, il Rwanda delle mille colline e della musica che risuona in ogni casa. Immagine antica cancellata dal genocidio: un milione di morti in cento giorni, dal 6 aprile al 21 luglio del 1994, quando il Fronte patriottico tutsi vince la guerra civile e mette fine al massacro.
Marie Louise non c’era. Non ha assistito alla mattanza. Un’assenza che la fa sentire incompleta ma che per lei - padre hutu, madre e marito tutsi, l’etnia sterminata - è stata l’unica via di salvezza. «Ero venuta in Italia nel ’90, con una borsa di studio per iscrivermi a Economia» racconta mentre
si annoda in vita l’abito di scena. Con il suo gruppo Sango - tre musicisti italiani e un senegalese, una ballerina italiana e una camerunese - porta il suo spettacolo ipnotico nei teatri e per le feste popolari del Veneto. Contesti informali dove la sua personalità e la sua bellissima voce viaggiano lontano.
È accaduto anche alla Biennale teatro di Venezia del ’99, quando Marie Louise si è esibita con la compagnia di Pippo Delbono: «Dovevo interpretare brani di musica classica. Ho improvvisato, e in quel momento ho capito che la mia danza vale, perché non ha confini e non è vincolata a stereotipi».
Marie Louise Niwemukobwa ha 42 anni, è madre di tre figli e abita a Mestre. Tiene stage di danza e musica rwandese ed è impegnata nella solidarietà: fa parte della Consulta delle cittadine del Comune di Venezia e conduce una trasmissione dedicata ai diritti delle straniere su un’emittente regionale, Radio Base.
Il linguaggio liberatorio e pacificatore del corpo e della voce l’ha scoperto da bambina, grazie a un padre che ogni sera riuniva i nove figli in salotto, nella loro casa di Gikongoro, sud del Rwanda, invitandoli a improvvisare spettacoli e poesie cantate. «La scuola più bella» sorride lei «perché mio padre non ha mai preteso che fossi un’artista perfetta ma non mi ha mai nascosto che la perfezione esiste».
Intanto ascoltava per radio le note dei villaggi del continente: quelle dei kikuyu in Kenya, i canti nella lingua wolof del Gambia e del Senegal, il lingala del Congo. Un sincretismo panafricano che ha perfezionato in Italia, a contatto con diverse culture immigrate. Ma a spingerla a vivere di danza e musica è stato il genocidio: dopo quell’evento furiosamente illogico, ha voluto tornare alle radici della sua cultura, a quella carica di ottimismo che un tempo permeava la sua terra e che, secondo lei, non è sepolta.
«Seguivo giorno e notte le notizie sugli scontri che preludevano alla tragedia. Però continuavo ad avere fiducia, a credere che hutu e tutsi avrebbero trovato un accordo. Nella mia famiglia ho sempre respirato la tolleranza: mio padre è hutu, mia madre è tutsi, colta e di stirpe nobile. Il 4 agosto del ’93, quando il presidente hutu Habyarimana firmò in Tanzania il trattato di pace con i rappresentanti tutsi, non andai a lezione: era una giornata sacra da dedicare al mio paese che, ne ero convinta, si incamminava verso la pace». Utopia: il 6 aprile del ’94 l’assassinio del presidente accende il grande rogo.
Marie Louise vuole tornare a casa, ma non le è possibile fino all’ottobre dello stesso anno. I suoi genitori si sono salvati, ma una sorella è morta nel massacro all’università di Kigali. «L’ho appreso da un amico rifugiato in Francia. Quando mi telefonò non volevo crederci: “Non era tutsi, perché l’hanno uccisa?” gli chiesi, e subito provai vergogna. Quel ragazzo, in quei giorni, aveva perso tutta la famiglia».
Appena atterrata a Kigali, Marie Louise sente un odore nuovo, dolciastro e tremendo. «Domandai cos’era e mi risposero: “Non c’eri? E dov’eri?”. Mi sentii colpevole. Era la puzza dei cadaveri ancora ammassati
dappertutto, come a voler testimoniare la furia distruttrice». Per due anni percorre il Rwanda in cerca di una ragione: «Dovevo trovare il perché di quell’orrore. Andavo nei villaggi a interrogare i bambini e le donne che vendono banane e pomodori. Ho raccolto centinaia di testimonianze, ma nessuno ha saputo spiegarmi perché i vicini di casa si ammazzavano tra loro. Una donna mi ha detto:
“È stato Satana. Su di noi si è abbattuto un male talmente violento che nessuno riesce a capirlo”».
Marie Louise respira odio e rischia la vita: «Stavo andando a cercare mia suocera in un campo profughi, dove si era riparata con altri tutsi» prosegue «e sulla strada ho incontrato una lunga fila di donne che portavano cibo ai mariti imprigionati per i massacri. Tra quegli uomini ne riconobbi uno che conoscevo, lo salutai attraverso le sbarre e mi accorsi che i guardiani del carcere mi osservavano con una rabbia furiosa. In Rwanda, se conosci un assassino sei un assassino anche tu. Allora mi mimetizzai fra le donne, chiedendo loro indicazioni su come raggiungere il campo profughi: mi fissavano con occhi opachi, senza rispondere. Il silenzio era diventato il loro linguaggio». Nella sua lingua, il kinyarwanda, c’è un’espressione, l’unica che renda lo stato d’animo di un popolo: imitima yarakomeretse, la malattia dei cuori feriti. Eppure Marie Louise nel suo cd Iwacu (Casa nostra) riesce a cantare la speranza: «Prima del genocidio noi giovani respiravamo l’inizio di un’era nuova: cominciavamo ad andare all’università, in discoteca, ad apprezzare l’arte e la musica. Bisogna ripartire da qui: dalla voglia di vivere del Rwanda che i
rwandesi non conoscono più, spenti dal genocidio».
Canzoni distese e cristalline: solo una voce bambina che accarezza il battito degli djambé. E che sfida l’odore di morte con versi semplici come sogni: «Nel più profondo del pozzo c’è l’amore, c’è la salvezza. C’è la vita».
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