CON L'AFGHANISTAN NEL CUORE
“Il nostro primo figlio”: così Teresa Strada chiamava la terra dove Emergency ha curato due milioni di persone. E dove, ora che lei non c’è più, sopravvive la sua lezione di indipendenza
"Francesco, mi raccomando le rose". L’ha congedato così, sulla porta della sede milanese di Emergency. Teresa Strada lo aveva ripetuto più volte, durante la riunione: «Non dimenticare: vorrei qualche immagine delle rose nel giardino del nostro ospedale a Kabul. Sono bellissime».
Peccato: Kabul era velata più del consueto da quella sua polvere tenace che somiglia a nebbia opaca. Le rose erano un po’ imbrunite dalle gocce sporche. Il fotografo Francesco Cocco le ha ritratte lo stesso per lei. Un omaggio floreale alla presidente di Emergency scomparsa il 1° settembre scorso.
Le immagini di Francesco Cocco compongono un ampio lavoro fotografico realizzato da Emergency in collaborazione con l’agenzia Contrasto: reportage dai 15 Paesi in cui l’organizzazione opera, con l’idea di allestire una grande mostra, in futuro. Senza fretta. Perché i fondi servono soprattutto per i progetti umanitari. Il cui cuore resta l’Afghanistan, «il nostro primo figlio» diceva Teresa Strada.
Afghanistan radice di Emergency, con due milioni di civili curati fino a oggi: il primo ospedale è sorto nel 1999 ad Anabah, nel Panshir del comandante Massud. Il secondo nel 2001, ma prima dell’11 settembre, nella Kabul dei talebani (che poi l’hanno chiuso per un pezzo perché donne e uomini non erano abbastanza separati in mensa). Un messaggio di indipendenza che Teresa, nei viaggi italiani a presentare la sua organizzazione, usava come biglietto da visita: essere presenti nelle zone di entrambe le fazioni in lotta, per dire che Emergency non sta con nessuno perché la difesa dei diritti umani (quello alla salute su tutti) non ha colore né divisa.
Lo aveva detto a Io donna, quando tempo fa le chiedemmo, in un’intervista un po’ giocosa, cosa avrebbe messo in cima all’agenda se mai fosse diventata capo di Stato: «Sanità gratuita, pubblica e di alto livello. La salute è un terreno sacro: la logica del profitto deve restarne fuori».
In Afghanistan c’era andata nell’estate del 2002, portando a casa magnifiche collane tribali: «Un regalo delle mie amiche di Kabul» diceva a Inge Feltrinelli, amica milanese, che oggi la rivede «con la sua allure da regina, il suo essere solare, fuori dal normale. E un’attenzione verso gli altri anche nei piccoli gesti: a casa sua c’era sempre da mangiare e da bere per chiunque arrivasse, e arrivava gente da tutto il mondo. Lei controllava che a nessuno mancasse nulla: un piatto, un bicchiere...».
«Teresa aveva timore, prima del viaggio in Afghanistan» aggiunge un’altra amica speciale, l’attrice Lella Costa. «A sorpresa, le avevano organizzato un incontro con i soldati italiani. E lei, di fronte a questa grande platea, è riuscita a parlare con tale coinvolgimento che diversi militari sono diventati collaboratori di Emergency».
Difficile parlare di Teresa. «Era totalmente senza retorica, di una concretezza molto lombarda» avverte la Costa. Che l’ha vista tesa e angosciata una volta sola, e non era per la malattia («Anzi: quel giorno, il 25 settembre 2007, mi chiamò e mi disse: “Ciccia, devo comunicarti una cosa brutta ma tu non metterti a frignare altrimenti non ce la faccio”): era dopo il rapimento in Afghanistan del giornalista Daniele Mastrogiacomo, nella cui liberazione Emergency ha giocato un ruolo chiave. Costato l’arresto del capo staff Rahmatullah Hanef, l’accusa di fiancheggiare Al Qaeda, la chiusura di tutti gli ospedali nella primavera del 2007 (riaperti mesi dopo, con il rilascio del manager). Teresa ha pianto. Per Hanef. Per l’Afghanistan che si allontanava da Emergency. Non per le polemiche: «Quelle le ha vissute senza stupore» ricorda Carlo Garbagnati, amico di sempre, a lungo suo vicepresidente.
«Era il suo lato più originale: lo sposalizio di entusiasmo genuino e disincanto. Sapeva che il mondo non fremeva per dirci bravi».
da Io donna, 12 settembre 2009
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