IO, FIRENZE E PATTI SMITH
foto di Gughi Fassino
Ho il vinile di Horses esposto in salotto, come un'opera d'arte. L'ho sentita in concerto tante volte da non contarle. Amo la sua energia, rimasta intatta negli anni. Le sue melodie semplici coniugate a testi poetici complessi e profondi. Il suo essere una sopravvissuta di un mondo che si è sfaldato in fretta, prima di riuscire a dire tutto quello che avrebbe dovuto. Così i miei giorni a Firenze con Patti Smith sono stati delizia. E tormento
Sono di parte, meglio chiarirlo subito. Quando mi hanno detto che avrei intervistato Patti Smith (di più: ho avuto il privilegio esclusivo di seguire da vicino la poetessa rock nelle sue giornate fiorentine, tra passeggiate canore e reading per celebrare il trentennale del suo grande concerto allo Stadio, il 10 settembre 1979), da sua fan adorante ho pensato: sopravvivrò al tu per tu con Lei?
Capostipite del rock al femminile, che conquistò l’amicizia di Burroughs e Ginsberg cantando “Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei” (Gloria). Pacifista rabbiosa, icona senza tempo. Una che, dopo il mitico show toscano, lasciò New York per Detroit, sposò un chitarrista suo omonimo, Fred “Sonic” Smith, per fare la casalinga e la madre, sparire, reinventarsi a cinquant’anni, morto Fred: fotografa, disegnatrice, ancora performer travolgente alla soglia dei 63 (li compirà il 30 dicembre).
Poi ho pensato a quel mio capodanno newyorchese...
... quando sfiorai la crisi coniugale infliggendo a un neo marito allergico al rock un concerto di Patti alla Bowery Ballroom, e la attesi a oltranza per l’autografo finché un gigantesco buttafuori fece il suo mestiere cacciandomi come una fan qualsiasi.
Questo articolo, insomma, nasceva come una rivalsa. Peccato che “la Patti” (così la chiama il suo manager, che le indica persino i gradini: «Step, be careful») non sia una personcina alla mano come mi aspetterei da una che canta People have the power e ama definirsi “lavoratrice”. La regola è ferrea: seguirla, certo, senza rivolgerle la parola al di fuori dell’intervista.
E io che sono di parte la capisco: difende la sua intima magia nella città dell’amato Michelangelo. Vuole solitudine a Santo Spirito e nella stanza di Palazzo Vecchio dove Francesco I sperimentava veleni. Le sto dietro a passo svelto, osservandola nei suoi Levi’s sgualciti, giacca nera, t-shirt e berretto di lana nonostante il caldo.
Scatta parecchio con la sua Polaroid Land, sceglie una piazza, afferra la chitarra, canta My blakean year e Grateful. Non è un bagno di folla come nel 1979, ma i fiorentini la riconoscono, la fermano, e c’è un tenace gruppo di giovani fan.
Mercato di Sant’Ambrogio, museo del Bargello, casa Buonarroti, biblioteca delle Oblate, Ponte Vecchio. Pausa: espresso in tazza grande con acqua calda a parte. E noi tenuti fuori dal bar. Percorre San Frediano, la rive gauche popolare: cerca gli artigiani, la attrae il lavoro manuale.
Il fabbro Puccio di via Toscanella la scambia per una turista americana un po’ toccata: lei gli stringe la mano sporca cantandogli Because the night, il brano scritto con Springsteen. «Io c’ero nel ’79» dice l’aiutante Gennarino «eravamo giovani e belli. Quante femmine in quello stadio…».
«I fiorentini mi hanno regalato uno dei miei ricordi più importanti» mi dirà Patti nell’intervista. «Sono qui per ringraziarli. Ieri venivo come rockstar, oggi torno come essere umano, artista, amica». Affabile Patti. Con la gente, un po' meno con noi. Ma io la capisco, e non oso estrarre dalla borsa i cd di Horses e Land (pure il tomo Patti Smith Complete, edito da Sperling & Kupfer, con la traduzione dei suoi testi fatta da Massimo Bubola. Un tomo che pesa): arriverà il momento giusto per chiederle l’autografo senza essere incenerita dalle occhiatacce in cui è dannatamente brava?
Il fatto è che “la Patti” non ci dice neanche “hallo” quando usciamo con lei dall’hotel (4 stelle senza lussi, c’è da dirlo), e se a Palazzo Vecchio ci regala Wing in privato, cantata davanti al “Putto con il delfino” del Verrocchio, che l’ha stregata, alle prove del reading serale le diamo fastidio (ce lo fa dire dall’agitato manager: lei non ci parla). Altra illusione: entriamo in un ristorantino del centro (lei prenderà fusilli aglio e olio, insalata, vino rosso e niente dolce: non tollera le uova) ma Patti, stizzita, ci manda a dire di cambiare tavolo.
Eppure avevamo ingranato bene, con l’intervista. A Villa La Pietra, dopo l’incontro con gli studenti della New York University. Sceglie una nicchia nel giardino, sediamo sui gradini, manda via tutti e io resto sola con il mito.
Magra, pelle chiara arrossata dal sole, voce screziata, occhiali scuri. Trasandata ed elegante insieme. «Non mi piace il mio aspetto ma non perdo tempo per migliorarlo: mia madre era quella che ci teneva» confida. «Mi piace l’alta moda, da guardare però. So prendermi cura di me: bevo un bicchiere di vino a pasto, non fumo più, non prendo droghe. Cammino e sto in contatto con me stessa. Ai miei figli (Jesse e Jackson, 22 e 26 anni, ndr) dico: divertitevi, e state attenti».
Vorrei un suo ricordo, intimo e speciale, di Firenze 1979: «Alle 4 di mattina, dopo il concerto, davanti al David con il poeta Gregory Corso. Percorremmo a piedi la città, pensando alle grandi menti che ci vissero. In Italia sapete conservare l’arte e la storia: da noi si distrugge per fare spazio ai centri commerciali».
Le chiedo del suo lungo silenzio, solo l’album Dream of life nell’88 ma nessun concerto fino al ’96, quando era ormai vedova e - dicono - sul lastrico. «Non sono mai stata orientata alla carriera. Essere moglie e madre mi ha sottratta ai riflettori ma non all’arte. Ho studiato, in quegli anni; mi sono evoluta come essere umano. Ogni mattina mi svegliavo prima di tutti e scrivevo. Ho compreso che non avevo bisogno di nulla di esterno: né della luna, né di New York. E ho passato ogni giorno con Fred: oggi sono felice di non aver condiviso quel tempo con altri».
Cosa le manca degli anni Settanta? «Robert Mapplethorpe (grande fotografo suo amico, scomparso nell’89, ndr), il primo a credere in me: mi manca la sua presenza fisica. Non sarebbe fantastico se spuntasse dal sentiero e venisse qui a dirmi ciao?».
Sembra più comoda fra i ricordi, Patti, che nel presente. Fatica a chiacchierare di frivolezze. Di shopping, per esempio. «Non ho comprato nulla» assicura. «Cercherò un block-notes rilegato in pelle per Jesse e un Pinocchio di legno. Quando invecchi ti interessa più vivere che acquistare». Tu menti, Patti. I tuoi anfibi neri raso terra, deliziosi, li ho visti in vetrina accanto all’hotel. La titolare del negozio conferma: avevi uno stivale scucito, lo hai portato dal calzolaio e hai preso questi anfibi da 330 euro, i meno cari. Che male c’era a dirlo? Come quando mal sopporti i cellulari che squillano, a eccezione del tuo: ok, Jesse ha un concerto importante (anche lei è musicista) e tu hai problemi di umidità in casa…
Vorrei chiederle del suo affetto per l’angioletto di bronzo. Dell’amico fiorentino Marco, che appare un pomeriggio e non la lascia più. Forse le parlerò dopo il concerto a Santa Croce: 11mila persone di ogni età, energia e voce invincibili. Patti dà tutto, sul palco. Logico che dopo due ore di “lavoro”, come direbbe lei, voglia godersi gli amici: niente interviste, insomma.
Il cantante degli italiani Baustelle la aspetta dal mattino: via anche lui. A me restano i cd da autografare e, accidenti, mi sento come quella sera sulla Bowery. Non posso farmi incenerire. Imploro il dodicenne Niccolò, precoce chitarrista ospitato al concerto, che in un attimo va e torna con le reliquie della sacerdotessa.
La rivedo a colazione: è andata a letto alle 3 e alle 8.30 eccola con Polaroid, berretto, trecce. Mi dà il tempo di un “bye”, ricambiato con gelo.
Finale numero uno: i miti? Meglio ammirarli da lontano. Finale numero due (di parte, lo sapete): grande Patti, che non transigi sulla tua intimità.
da Io donna, 26 settembre 2009
Ho il vinile di Horses esposto in salotto, come un'opera d'arte. L'ho sentita in concerto tante volte da non contarle. Amo la sua energia, rimasta intatta negli anni. Le sue melodie semplici coniugate a testi poetici complessi e profondi. Il suo essere una sopravvissuta di un mondo che si è sfaldato in fretta, prima di riuscire a dire tutto quello che avrebbe dovuto. Così i miei giorni a Firenze con Patti Smith sono stati delizia. E tormento
Sono di parte, meglio chiarirlo subito. Quando mi hanno detto che avrei intervistato Patti Smith (di più: ho avuto il privilegio esclusivo di seguire da vicino la poetessa rock nelle sue giornate fiorentine, tra passeggiate canore e reading per celebrare il trentennale del suo grande concerto allo Stadio, il 10 settembre 1979), da sua fan adorante ho pensato: sopravvivrò al tu per tu con Lei?
Capostipite del rock al femminile, che conquistò l’amicizia di Burroughs e Ginsberg cantando “Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei” (Gloria). Pacifista rabbiosa, icona senza tempo. Una che, dopo il mitico show toscano, lasciò New York per Detroit, sposò un chitarrista suo omonimo, Fred “Sonic” Smith, per fare la casalinga e la madre, sparire, reinventarsi a cinquant’anni, morto Fred: fotografa, disegnatrice, ancora performer travolgente alla soglia dei 63 (li compirà il 30 dicembre).
Poi ho pensato a quel mio capodanno newyorchese...
... quando sfiorai la crisi coniugale infliggendo a un neo marito allergico al rock un concerto di Patti alla Bowery Ballroom, e la attesi a oltranza per l’autografo finché un gigantesco buttafuori fece il suo mestiere cacciandomi come una fan qualsiasi.
Questo articolo, insomma, nasceva come una rivalsa. Peccato che “la Patti” (così la chiama il suo manager, che le indica persino i gradini: «Step, be careful») non sia una personcina alla mano come mi aspetterei da una che canta People have the power e ama definirsi “lavoratrice”. La regola è ferrea: seguirla, certo, senza rivolgerle la parola al di fuori dell’intervista.
E io che sono di parte la capisco: difende la sua intima magia nella città dell’amato Michelangelo. Vuole solitudine a Santo Spirito e nella stanza di Palazzo Vecchio dove Francesco I sperimentava veleni. Le sto dietro a passo svelto, osservandola nei suoi Levi’s sgualciti, giacca nera, t-shirt e berretto di lana nonostante il caldo.
Scatta parecchio con la sua Polaroid Land, sceglie una piazza, afferra la chitarra, canta My blakean year e Grateful. Non è un bagno di folla come nel 1979, ma i fiorentini la riconoscono, la fermano, e c’è un tenace gruppo di giovani fan.
Mercato di Sant’Ambrogio, museo del Bargello, casa Buonarroti, biblioteca delle Oblate, Ponte Vecchio. Pausa: espresso in tazza grande con acqua calda a parte. E noi tenuti fuori dal bar. Percorre San Frediano, la rive gauche popolare: cerca gli artigiani, la attrae il lavoro manuale.
Il fabbro Puccio di via Toscanella la scambia per una turista americana un po’ toccata: lei gli stringe la mano sporca cantandogli Because the night, il brano scritto con Springsteen. «Io c’ero nel ’79» dice l’aiutante Gennarino «eravamo giovani e belli. Quante femmine in quello stadio…».
«I fiorentini mi hanno regalato uno dei miei ricordi più importanti» mi dirà Patti nell’intervista. «Sono qui per ringraziarli. Ieri venivo come rockstar, oggi torno come essere umano, artista, amica». Affabile Patti. Con la gente, un po' meno con noi. Ma io la capisco, e non oso estrarre dalla borsa i cd di Horses e Land (pure il tomo Patti Smith Complete, edito da Sperling & Kupfer, con la traduzione dei suoi testi fatta da Massimo Bubola. Un tomo che pesa): arriverà il momento giusto per chiederle l’autografo senza essere incenerita dalle occhiatacce in cui è dannatamente brava?
Il fatto è che “la Patti” non ci dice neanche “hallo” quando usciamo con lei dall’hotel (4 stelle senza lussi, c’è da dirlo), e se a Palazzo Vecchio ci regala Wing in privato, cantata davanti al “Putto con il delfino” del Verrocchio, che l’ha stregata, alle prove del reading serale le diamo fastidio (ce lo fa dire dall’agitato manager: lei non ci parla). Altra illusione: entriamo in un ristorantino del centro (lei prenderà fusilli aglio e olio, insalata, vino rosso e niente dolce: non tollera le uova) ma Patti, stizzita, ci manda a dire di cambiare tavolo.
Eppure avevamo ingranato bene, con l’intervista. A Villa La Pietra, dopo l’incontro con gli studenti della New York University. Sceglie una nicchia nel giardino, sediamo sui gradini, manda via tutti e io resto sola con il mito.
Magra, pelle chiara arrossata dal sole, voce screziata, occhiali scuri. Trasandata ed elegante insieme. «Non mi piace il mio aspetto ma non perdo tempo per migliorarlo: mia madre era quella che ci teneva» confida. «Mi piace l’alta moda, da guardare però. So prendermi cura di me: bevo un bicchiere di vino a pasto, non fumo più, non prendo droghe. Cammino e sto in contatto con me stessa. Ai miei figli (Jesse e Jackson, 22 e 26 anni, ndr) dico: divertitevi, e state attenti».
Vorrei un suo ricordo, intimo e speciale, di Firenze 1979: «Alle 4 di mattina, dopo il concerto, davanti al David con il poeta Gregory Corso. Percorremmo a piedi la città, pensando alle grandi menti che ci vissero. In Italia sapete conservare l’arte e la storia: da noi si distrugge per fare spazio ai centri commerciali».
Le chiedo del suo lungo silenzio, solo l’album Dream of life nell’88 ma nessun concerto fino al ’96, quando era ormai vedova e - dicono - sul lastrico. «Non sono mai stata orientata alla carriera. Essere moglie e madre mi ha sottratta ai riflettori ma non all’arte. Ho studiato, in quegli anni; mi sono evoluta come essere umano. Ogni mattina mi svegliavo prima di tutti e scrivevo. Ho compreso che non avevo bisogno di nulla di esterno: né della luna, né di New York. E ho passato ogni giorno con Fred: oggi sono felice di non aver condiviso quel tempo con altri».
Cosa le manca degli anni Settanta? «Robert Mapplethorpe (grande fotografo suo amico, scomparso nell’89, ndr), il primo a credere in me: mi manca la sua presenza fisica. Non sarebbe fantastico se spuntasse dal sentiero e venisse qui a dirmi ciao?».
Sembra più comoda fra i ricordi, Patti, che nel presente. Fatica a chiacchierare di frivolezze. Di shopping, per esempio. «Non ho comprato nulla» assicura. «Cercherò un block-notes rilegato in pelle per Jesse e un Pinocchio di legno. Quando invecchi ti interessa più vivere che acquistare». Tu menti, Patti. I tuoi anfibi neri raso terra, deliziosi, li ho visti in vetrina accanto all’hotel. La titolare del negozio conferma: avevi uno stivale scucito, lo hai portato dal calzolaio e hai preso questi anfibi da 330 euro, i meno cari. Che male c’era a dirlo? Come quando mal sopporti i cellulari che squillano, a eccezione del tuo: ok, Jesse ha un concerto importante (anche lei è musicista) e tu hai problemi di umidità in casa…
Vorrei chiederle del suo affetto per l’angioletto di bronzo. Dell’amico fiorentino Marco, che appare un pomeriggio e non la lascia più. Forse le parlerò dopo il concerto a Santa Croce: 11mila persone di ogni età, energia e voce invincibili. Patti dà tutto, sul palco. Logico che dopo due ore di “lavoro”, come direbbe lei, voglia godersi gli amici: niente interviste, insomma.
Il cantante degli italiani Baustelle la aspetta dal mattino: via anche lui. A me restano i cd da autografare e, accidenti, mi sento come quella sera sulla Bowery. Non posso farmi incenerire. Imploro il dodicenne Niccolò, precoce chitarrista ospitato al concerto, che in un attimo va e torna con le reliquie della sacerdotessa.
La rivedo a colazione: è andata a letto alle 3 e alle 8.30 eccola con Polaroid, berretto, trecce. Mi dà il tempo di un “bye”, ricambiato con gelo.
Finale numero uno: i miti? Meglio ammirarli da lontano. Finale numero due (di parte, lo sapete): grande Patti, che non transigi sulla tua intimità.
da Io donna, 26 settembre 2009
Fantastico..l'ho letto tutto di un fiato..
RispondiEliminaL'ho intervistata l'anno scorso e la sua umanità grazia dolcezza ed arte di mestiere rifulge ancora più preziosa..
Sarei contenta ti iscrivessi al mio blog http://rockmusicspace.blogspot.it/
Un forte abbraccio..