I BAMBINI DI ZAREMA
Clara lo ammette e se ne vergogna: «La Cecenia? Non sapevo dove stesse sulla carta geografica. Ignoravo che si morisse così, non troppo lontano da noi in fondo. È triste: leggi le notizie, guardi i Tg, e tutto ti attraversa come un cumulo indistinto di eventi che non ti riguardano…».
La guerra del Caucaso è arrivata un giorno nella sua luminosa, tranquilla casa di Limbiate, a pochi chilometri da Milano. Aveva gli occhi grandi di Turko, un bambino di 11 anni che ama danzare e disegnare cigni rosa e di notte si sveglia in preda agli incubi. Era piccolo ma capiva tutto quando, a Grozny, suo padre è stato portato via da un commando militare svanendo nel nulla: una scena che si è ripetuta identica, tempo dopo, con i tre zii con i quali il bambino viveva. Per Turko è normale che le persone che ami possano andarsene così, all’improvviso, e non tornare mai più.
Come per Rayyan, nove anni e lunghissimi capelli di seta, è normale imparare, giorno per giorno, a riconoscere il proprio viso allo specchio: stava cenando con la famiglia, nel loro villaggio di campagna, quella sera del 2004 lacerata dall’esplosione senza perché che l’ha completamente ustionata, costringendola a 16 operazioni per ricostruire la sua immagine. «Si pettina con cura, prova i cerchietti di mia figlia. È riuscita a piacersi persino con le sue ferite, e questo dimostra quanto sia forte» racconta Gabriella, che adesso prende per mano Rayyan e la porta a fare shopping per concludere in festa la sua vacanza italiana.
Incontriamo i bambini ceceni mentre riempiono di spruzzi e risate la piscina di Limbiate. Sono venti, ospiti per due settimane di famiglie dell’hinterland milanese e, prima, in colonia a Rimini. Una pausa per piccoli reduci. Fatta di laboratori scolastici con i coetanei italiani, gite all’Acquario di Genova, al Museo della scienza di Milano, tanto sport di gruppo e serate in famiglia a giocare ai Memo Games o alla Wii.
C’è una traduttrice che li accompagna, ma in ogni casa il frigorifero è tappezzato da un essenziale dizionario italiano-ceceno. «Anche a gesti ci capiamo» assicura Maria, che ha accolto il bambino più difficile: Sheykh-Mansur, 10 anni, metà piede sinistro spappolato da una granata in giardino quando era neonato. «All’inizio era glaciale e non si sforzava di comunicare» dice Maria. «Piano piano ha accettato di giocare con i nostri figli e la diffidenza è svanita».
Gli psicologi ceceni che hanno in cura questi ragazzi constatano che tre settimane in Italia servono, eccome. Servono per tirare il fiato dai rumori, da una paura densa, dalla tensione che attanaglia la Cecenia pur ufficialmente pacificata in primavera, quando la Russia ha annunciato il ritiro dei suoi 40 mila soldati. Da allora non si contano gli attentati, un pericoloso caos esplode in quest’area sofferente che comprende anche le due Ossezie, l’Inguscezia e il Daghestan ancora più terre di nessuno. Crocevia di strapoteri mafiosi, di spinte indipendentiste, del fondamentalismo islamico e del pugno di ferro di Putin. L’ultimo attentato kamikaze nel centro di Grozny è datato 16 settembre, ma mentre scriviamo forse accadono altri scempi. Secondo Freedom House la Cecenia, in guerra dal 1995, è il luogo più pericoloso del pianeta.
Coinvolgere 20 famiglie lombarde in un gesto di solidarietà semplice e importante è un’idea di “Mondo in Cammino”, l’unica associazione italiana che abbia ancora il coraggio di lavorare in Cecenia. Ha cominciato con l’accoglienza dei bambini di Chernobyl; dal 2004 porta in Italia anche i piccoli di Beslan, nell’Ossezia del Nord, teatro della strage a scuola del 1° settembre di quell’anno con 335 vittime. E poi la Cecenia: «Anche se per questi bambini il viaggio in Italia ha il sapore di una parentesi, siamo convinti che possa regalare loro un po’ di speranza nel futuro mostrando che non esistono solo violenza e terrore. E serve a noi, in Italia, per tenere desta l’attenzione sulla crisi nel Caucaso» spiega Massimo Bonfatti, attivissimo presidente di “Mondo in cammino”.
Lavora come infermiere in un ospedale piemontese e nel tempo libero, da volontario, costruisce progetti per l’infanzia dalle zone di Chernobyl fino al Caucaso, «perché accogliere da noi i bambini senza portare la cooperazione nei loro Paesi non ha senso».
Bonfatti conosceva bene Zarema Sadulayeva, comparsa per un giorno sui nostri giornali. Era lei che a Grozny, con la sua organizzazione “Salviamo la generazione”, si prendeva cura dei bambini mutilati e scioccati: sapeva che sempre più giovani ceceni fuggono sulle montagne per unirsi ai guerriglieri (500 universitari lo hanno fatto un anno fa, dopo il fallito attentato al presidente Ramzan Kadyrov, uomo di Putin) e pensava che dare un’esistenza normale e un sostegno psicologico ai più piccoli sarebbe servito a prevenire l’odio. Il 10 agosto, cinque uomini armati si sono presentati nei suoi uffici portando via lei e il marito Alik Zhabrailov. I due cadaveri sono stati trovati il giorno dopo nel portabagagli di una Ziqhuli, tanto sfigurati che nemmeno la madre di Zarema ha riconosciuto la donna. Aveva i polsi girati, la schiena e le gambe spezzate, il viso cancellato dalle pallottole. E suo marito anche.
Eppure Zarema non era una militante per i diritti umani come Natalia Estemirova, messa a tacere per sempre il 15 luglio per le sue denunce contro gli scempi di Mosca in Cecenia, ideale erede della giornalista Anna Politkovskaya. «Zarema non alzava la voce» ricorda Bonfatti «parlava con l’azione. Ma contrapporre la prospettiva di una rinascita civile alla “normalizzazione” governativa, in Cecenia non si può fare».
Il viaggio italiano dei bambini di Zarema stava per bloccarsi, dopo l’assassinio della donna. Realizzarlo ugualmente, tra mille difficoltà, significa dire a questi bambini che non sempre, non ovunque, la violenza impone l’ultima parola.
Io donna, 17 ottobre 2009
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