NON HO DIO IN VALIGIA
Claude Boucher è un missionario canadese perdutamente innamorato del Malawi e delle culture indigene. Il suo museo nella foresta è un monumento alla sete di conoscenza.
foto Alida Vanni
Attraversati un atrio angusto e una porticina, il colpo d’occhio è di quelli che tolgono il fiato. Un’ampia sala circolare dal tetto conico, gonfiata da una cascata di volti umani e ferini dai colori accesi, i tratti marcati e caricaturali. Smorfie di dolore e giubilo, simil-diavoli rossi con le corna, facce nere e arancioni di ogni dimensione, fauci spalancate, capelli posticci, manichini con stoffe a brandelli che sembrano in procinto di spiccare un salto. Come un abnorme salice piangente che al posto delle foglie abbia centinaia di maschere appese ai rami.
Sono solo alcune delle tantissime che da oltre trent’anni colleziona Claude Boucher, missionario canadese della congregazione dei Padri Bianchi, pittore, scultore, antropologo appassionato e perdutamente innamorato del Malawi, il minuto e povero Stato dell’Africa sud-orientale afflitto da periodiche carestie e dalla piaga dell’Aids.
Il religioso di Montréal lo ha scelto come casa nel 1967, venticinquenne. «Una mia zia era missionaria qui quando il Paese si chiamava ancora Nyasaland», ricorda nel fresco giardino appena fuori dal suo ufficio traboccante di libri. «Anche un mio compagno di seminario si trasferì da queste parti: mi spediva lettere in cui decantava con entusiasmo quanto fosse amichevole e meravigliosa la gente del posto. Così, quando i miei superiori mi chiesero in quale Stato africano volessi essere mandato, risposi: Malawi, of course».
Se chiedete di lui in qualsiasi parte del Paese, dalla capitale Lilongwe a Blantyre, moderna città del Sud, vi risponderanno: «Boucher? È il bianco che parla perfettamente la lingua chichewa». «Sì, ormai sono diventato un malawiano», ammette lui. «Sono parte di questo splendido paesaggio».
La sua missione sta a Mua, nella zona centrale del Paese. L’ha chiamata Ku’Ngoni dal nome di una cascata vicina, a significare il flusso ininterrotto della cultura, l’acqua che regala vita inestinguibile nei secoli. La Ku’Ngoni Mission è un giardino verdissimo puntellato da casette, con una grande chiesa in mattoni a dare il benvenuto a chi arriva: turisti, volontari, ricercatori, studenti dell’Università malawiana di Zomba.
La sua fama è legata alle originali sculture in legno chiaro che escono dai suoi laboratori, e dal 1999 anche a un museo dedicato alle culture locali: il più ricco e completo del Malawi, capace di raccontare attraverso fotografie, oggetti e minuziose ricostruzioni storiche, la vita quotidiana dei popoli Chewa, Ngoni e Yao, le etnie principali presenti fin dal 900 dopo Cristo. «La zona di Mua è un punto d’incontro di queste tre culture», spiega il missionario, «un autentico paradiso per un antropologo».
Boucher ha approfondito soprattutto la cultura chewa, di ceppo Bantu, il gruppo più numeroso in Malawi, che ha determinato anche la lingua nazionale. E lui è l’unico bianco a essere stato ammesso nelle loro «società segrete», gli officianti delle danze rituali messe in scena con maschere e canti per celebrare le tappe più importanti della vita umana: la nascita, l’iniziazione all’età adulta dei maschi e delle femmine, il matrimonio, la designazione del capo villaggio, la morte. Un caleidoscopio di simboli che, con la sua arcaica e potente spiritualità, ha rapito Boucher fin dal suo arrivo in questa difficile terra di fame e malaria.
«Per un paio di anni mi sono voluto allontanare da qui, per studiare in Uganda e a Londra e apprendere un’adeguata metodologia antropologica», precisa. «Rientrato in Malawi nel ’76, grazie all’amicizia con i giovani scultori che avevo radunato già intorno a me, ho cominciato a dedicare il mio tempo libero alle famiglie dei villaggi, mangiando con loro, dormendo per terra nelle capanne, partecipando a funerali e riti di iniziazione. Come ho conquistato la fiducia della gente? Osservando molto, in silenzio, e rispettando le loro regole, prima fra tutte la capacità di tenere un segreto. Le maschere del museo, per esempio: non permetto mai di fotografarle tutte insieme perché sono espressione delle "società segrete" e dopo le danze vengono nascoste in un luogo conosciuto solo ai membri. Ci vuole cautela nel divulgare la loro immagine».
Il museo della missione ha varie stanze, ognuna per un soggetto. Vi è descritta anche la storia dei Padri Bianchi in Malawi, fin dal loro arrivo nei primi anni del secolo scorso. Si raccontano le cosmogonie e il culto dei morti presso i Chewa, gli Ngoni e gli Yao, questi ultimi di religione musulmana, oggi divisi in due correnti molto diverse. E sta anche qui la cifra del lavoro di Boucher: nel valorizzare con ostinato piglio scientifico le tante forme della spiritualità autoctona, per capire quali punti di incontro può rivelare con altre religioni, il cristianesimo su tutte.
«Non è stato facile», rivela. «Qui, all’inizio, i missionari erano ostili verso la cultura locale, la guardavano come una forma di paganesimo e dicevano alla popolazione che i loro riti li avrebbero tagliati fuori dai sacramenti della Chiesa. Io ho seguito un percorso differente, non sono il tipo di missionario che viene in Africa con Dio in valigia ma cerco Dio dove mi trovo. Il Vangelo è sempre stato qui, non sono io a portarlo. Ho tentato di accompagnare la gente alla scoperta di Dio e dell’azione dello Spirito nella loro cultura tradizionale, convinto che anche per me studiare quelle usanze, imparare le canzoni, le danze e la loro lingua non significasse altro che cercare Dio. Non è un’attività secolare: è lo scopo della mia esistenza in Malawi. E ne parlo anche con i giovani che vengono qui a imparare la scultura del legno: l’arte dev’essere una riscoperta della loro cultura, una strada per farsi ambasciatori di tradizioni che affondano radici fin nelle antiche pitture rupestri dei pigmei».
Claude Boucher collabora con musei australiani e norvegesi alla divulgazione della cultura malawiana, la sua biblioteca racchiude un inventario unico di testi, fotografie e video, e ha appena ultimato la sua pubblicazione più corposa: Ku’Ngoni. A Guide into the Highland of Malawi. «Ripercorre i canti dei riti di passaggio», chiarisce lui, «e lo svolgimento della grande danza rituale, il Gule Wamkulu, dove le maschere sono protagoniste assolute. Ho raccolto interviste alla gente dei villaggi e documentato il significato di ogni maschera: basterebbe conoscere queste per comprendere la società chewa. Le maschere parlano dei valori di fratellanza, unità, pace. Alludono alla sessualità, al comportamento sociale, alla politica. Coprono l’intera esistenza».
Le più importanti, Chadzunda e Maria, uomo e donna che danzano insieme, sono gli officianti del Gule Wamkulu. «Ma ci sono altri personaggi che si muovono in questo universo capovolto, dove la caricatura dei tratti indica l’opposto di ciò che appare. Una maschera pacifica ci ammonisce sulla confusione in cui è piombato il mondo, e il codice cromatico arricchisce di altri significati: il rosso per lo straniero, il sesso e la sete di sangue; il bianco per morte e carestia; il nero per fertilità e vita. E poi la mimica enfatica, che è sempre una parodia, e le parole cantate, criptiche e sottoposte anch’esse a precisi codici interpretativi».
Poco lontano dall’ufficio di Boucher, un gruppo di intagliatori è all’opera sotto una tettoia nel verde, che più giù piomba nel fiume Nazipoque, dove la gente dei villaggi vicini viene a fare il bagno. Sono centinaia gli artisti che si sono formati qui negli anni: giovani talenti, alcuni affermati come Kay Chiromo, famoso anche oltre confine. Tutti istruiti a scegliere il legno chiaro degli alberi che crescono in abbondanza, qui intorno, e a non toccare piante che invece rischiano l’estinzione.
A Mua non si trova un solo oggetto in ebano, «che piace tanto agli occidentali perché è uno dei tanti stereotipi dell’Africa», sorride Boucher. Gli artisti creano statue grandi e piccole, maschere di ogni dimensione, arredi per le chiese, pannelli decorativi come quello che ora sta sotto le mani di un ragazzo, una divinità al centro della scena attorniata dalla gente dei villaggi e da stormi di uccelli che simboleggiano gli spiriti degli antenati. Stile inconfondibile, quello del laboratorio di Mua: disegni fitti, intarsi elaborati e mai spigolosi che si incontrano nei mercati di tutto il Malawi.
È così che abbiamo scoperto Boucher: chiedendoci come mai quelle sculture in un negozio di Lilongwe risultassero tanto diverse dalle altre. E parlando con questo religioso schivo, sulle prime, ma presto affabile e soddisfatto di raccontare il suo lavoro e il mondo di tradizioni in cui è immerso, abbiamo compreso cos’hanno di tanto ammaliante le sue opere d’arte, che valgono molto più dei pochi kwacha con cui si acquistano.
«Tutto, in Malawi, è amore», dice Boucher. «La mia chiave d’accesso fra questi popoli è stato l’essere innamorato di loro. Amo persino lo nsima, il semolino di mais che qui costituisce la base dell’alimentazione. Ho trovato sorprendente che in Malawi non esista un termine per dire "avere". Non esiste il concetto di possesso, si dice "essere con": c’è un senso della condivisione che noi occidentali abbiamo perduto».
È questo che può insegnarci l’Africa, oggi: «L’unica cosa di cui è ricca: i valori, la bellezza della diversità che si può condividere e arricchisce. Un universo di valori opposto a quelli della globalizzazione, che fa perdere le peculiarità delle culture e le getta nel calderone del consumismo. Io lavoro anche per questo, affinché le nuove generazioni del Malawi, che perdono sempre più consapevolezza delle proprie radici, non guardino ai modelli occidentali, nella vita e nell’arte, ma trovino se stessi nell’alveo delle proprie origini».
All’ingresso del museo c’è un camaleonte, l’animale che per i Chewa simboleggia la vita, contro la lucertola che invece è la morte. Il camaleonte ha occhi davanti, per guardare al futuro, ma anche dietro. Per non perdere mai di vista il passato, e usarlo come bussola.
Commenti
Posta un commento