STESSA SPIAGGIA, STESSO MARE

Questa volta me ne vado stremata. Non è fatica fisica. E’ il pensiero, lo sforzo di capire e immaginare il futuro, riflessioni che questa volta si schiantano per terra.
Non ero mai stata a Tel Aviv. Mi sono bastati questi giorni per convincermi che no, la convivenza è utopia. La pace sarà un miracolo. Mi sembrano due rette parallele che si incontreranno solo all’infinito, se esiste l'infinito.

Tel Aviv

A Tel Aviv le feste in spiaggia sono giochi d'ombre alla luce fioca di lampade rosse.
Surfisti, biciclette che quasi ti investono, gente che fa yoga accanto al mare al tramonto. Ragazze ubriache di birra Goldstar che barcollano e cantano stonate sul lungomare. Sushi bar e negozietti chic a Nevek Tzek. Bambine che si bagnano nude in una fontanella del Suzanne Dellal Center. Musica dance, reggae e latino-americana onnipresente, a ogni ora del giorno e della notte. Uomini vecchissimi, ossuti ed eleganti, che fanno colazione tardi, a due a due, nei caffè di Ben Yehuda Street, e a me piacerebbe tanto sapere cosa si stanno raccontando. Estetica quasi sovietica di certi palazzi, poi giri l’angolo e trovi deliziose case basse, gialle e bianche, con terrazzi fioriti. 

Tel Aviv


Sessantasei chilometri più a Sud, questa spiaggia diventa la spiaggia della Striscia di Gaza. Che ha pure una sua allegria, in fondo: ragazzi e ragazze a cavallo sul bagnasciuga, vociare di bambini, gli unici cui è concesso scoprirsi; famiglie che bivaccano con tè e biscotti e ti invitano a sedere con loro.

Gaza


Ne ho conosciuta una, un pomeriggio, spassosissima: lei figlia di profughi palestinesi e nata nel New Jersey, lui gazawi ma per anni in Virginia per studio e lavoro, venuti a Gaza l’anno scorso per faccende di nostalgia familiare. Americanissimi, ridanciani, lei che - tutta velata di nero - raccontava di come fosse lei l’uomo di casa, con tre bimbe che scorrazzavano fra le onde, e un quarto figlio in arrivo. Volevano farlo nascere in America: il permesso di uscire da Gaza è stato loro negato dagli israeliani, e ormai è troppo tardi per tentare di uscire da Rafah verso l’Egitto.

Gaza


Insomma, stessa spiaggia e stesso mare. Ma è come passare da Giove a Saturno. Lo so, altri lo hanno già scritto, di certo anche meglio, però davvero: è una sensazione talmente senza nome, una dicotomia tale che c’è bisogno di condividerla, per liberarsene probabilmente. Come si fa piazza pulita di tutto quello che non si riesce a capire.

L’anno scorso era stato lo stesso un giovedì. Giornata intera a Ramallah a intervistare due ragazze che si erano fatte tre anni di carcere e nessuno aveva mai spiegato loro il perché, seguite fino a casa nel campo profughi di Jalazone, con le solite mamme e sorelle palestinesi che ti baciano, ti siedono accanto tenendoti la mano, ti rivolgono affettuosi e interminabili discorsi in arabo sebbene sappiano che non capisci una parola. Lo stesso vecchio frullato di povertà, disperazione, piccoli sogni fatiscenti come le case, sguardi che non hanno mai avuto nulla da festeggiare.
Poi la serata a Gerusalemme Ovest, a Ben Yehuda, dove i giovani si divertono e si sbronzano come da noi, la guerra non c’è, il muro della Cisgiordania sta lì, a una ventina di chilometri ma non si intravede. Dunque non esiste.
Forse è giusto così. Forse è uno scempio. Di certo è un cortocircuito nella testa di chi sta a guardare.

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