FUGA A CAVALLO DI UN'ONDA




Shorouq e Sabah, uniche surfiste donne (o meglio, bambine) di Gaza City. Che lanciano sul mare assediato le vecchie tavole contrabbandate dai tunnel di Rafah.

L’aria sa d’inverno, oggi, e il mare è troppo arrabbiato per tentare di domarlo. Le tavole da surf sotto braccio, Shorouq e Sabah studiano l’orizzonte e quei puntini neri schierati geometricamente sulla linea del mare: sono le navi da guerra israeliane che le hanno impaurite una sola volta, quando le loro figure snelle e acerbe volavano sull’acqua troppo veloce, troppo distante dalla costa, e si sono viste quei mostri scuri apparire quasi accanto.
Ma anche allora sono riuscite a ridere, a tornare indietro rapide senza mai cadere, perché sanno bene che il mare di Gaza è fatto così, è una contraddizione: un mare limitato, chiuso, esattamente come la terra.



Shorouq e Sabah Abu Ghanem siedono con noi in un ristorante vuoto sul lungomare di Gaza City, a Sheik Khadzien Beach, la spiaggia dei surfisti.
Nella Striscia tutti conoscono queste sorelline di 14 e 12 anni, le uniche ragazze di Gaza a praticare il surf. E sono brave, tanto da essere state ammesse nel Gaza Surf Club, una trentina di soci, tutti di sesso maschile tranne le due sorelle Abu Ghanem. Perché nella Striscia sigillata da Israele e governata dal partito islamico integralista di Hamas alle donne non è permesso neppure andare in bicicletta, figuriamoci cavalcare le onde.

“Nostro padre ci ha insegnato a nuotare quando eravamo piccolissime” racconta Shorouq, la maggiore, il capo velato. “Lui è una guardia costiera: ci portava con sé sulla barca di salvataggio, ci ha trasmesso il suo amore per il mare e presto ci ha insegnato anche a surfare sulle tavole che usava da ragazzo”.
Il padre Rajab assicura che le figlie sono autentici animali marini, e ora sta iniziando agli sport acquatici anche la figlia minore, di 8 anni, e le nipoti Khouloud e Rawan. Un minuto plotone di amazzoni del mare, costrette a domare la tavola vestite di tutto punto, con jeans, maglietta larga e velo in testa, altrimenti darebbero troppo scandalo.



“Siamo delle diverse, qui” dice la piccola Sabah dallo sguardo scuro “le nostre compagne ci guardano con invidia, perché sanno che noi siamo più libere di loro”.
Libere di volare sull’acqua, di lasciare sulla terra ferma, sebbene solo per qualche ora, la loro Gaza povera e assediata da due parti, il muro israeliano e l’integralismo immobile di Hamas. E libere di sognare: mettere alla prova il loro talento sportivo in gare internazionali e, prima di tutto, sfrecciare sopra l’oceano della California. “E’ il primo luogo in cui andrei se ne avessi la possibilità” ammette Shorouq con il sorriso timido delle ragazze di Gaza, che possono esplorare il mondo solo attraverso internet. Per ora, però, lei si accontenterebbe di una tuta da surf meno ingombrante degli abiti di tutti i giorni e, soprattutto, di una tavola nuova di zecca. “Le nostre sono troppo rovinate, ormai” spiega, e mostra le crepe sull’asse di plastica gialla, arrivata qui anni fa con la merce di contrabbando che passa attraverso i tunnel scavati al confine con l’Egitto.
Eppure Tel Aviv, paradiso mediorientale dei surfisti, sta solo a una settantina di chilometri a nord. Stessa spiaggia, stesso mare, due universi agli antipodi.
Nella città israeliana la sabbia vive di feste alcoliche fino all’alba, surfisti da non contarli, gente che fa yoga al tramonto, musica reggae, stabilimenti balneari. Sulla spiaggia di Gaza City, invece, le famiglie improvvisano pic-nic, le donne si bagnano solo in certi punti isolati e completamente vestite, i giovani corrono a cavallo. E i surfisti sognano di scavalcare, onda su onda, le navi da guerra all’orizzonte.



Nel 2007 fu una leggenda del surf israeliano, l’ormai novantenne Dorian Paskowitz, ebreo californiano pioniere di questo sport a Tel Aviv negli anni ’50, a portare a Gaza una ventina di tavole nuovissime. Aveva visto in tv un servizio sui surfisti di Gaza, e voleva incoraggiarli, convinto che “i popoli che fanno surf insieme, possono anche vivere insieme”.
Lo scorso anno l’organizzazione da lui fondata, Surfing4Peace, ha fatto entrare nella Striscia altre 24 tavole, e ora vuole aiutare le giovani promesse femminili come Shorouq e Sabah progettando tute da surf “consone” alle ragazze musulmane, che permettano movimenti fluidi e, insieme, coprano le forme del corpo. Perché quando le due sorelline diventeranno donne, sicuramente Hamas si accorgerà di loro. “Ma per allora, forse” accenna Shorouq “saremo diventate atlete professioniste, rappresenteremo la Palestina nelle competizioni internazionali…”.
Ai sogni, nemmeno il muro di Gaza è in grado di imporre confini.

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