MERIEM VIENE A PRENDERCI ALL'ALBA




Ad Algeri è tornato il sole, il clima è primaverile, un tepore che mi conforta come una carezza materna dopo il freddo invincibile del Sahara d’inverno.
Corriamo verso l’aeroporto sull’auto di Riad, un signore sulla cinquantina che racconta di quanta gente sia morta, in gennaio e febbraio, per le fughe di gas dalle bombole, e di come quest’anno sia fiorito il mercato nero del gas da riscaldamento, in un inverno eccezionalmente gelido e nevoso per l’Algeria. Intere famiglie costrette a indebitarsi per non crepare di freddo. 
Le montagne sono ancora bianche: un paesaggio quasi alpino, stranito dal Mediterraneo alla nostra sinistra.
Io sto in una specie di trance, insonne e male acclimatata. Simona invece chiacchiera fitto con Riad, concedendomi di chiudere un poco gli occhi con la faccia al sole.
Siamo partite ieri notte da Tindouf, con un aereo dall'orario vessatorio: decollo alle 2, atterraggio ad Algeri alle 4 e mezzo. Ci attendeva una mattinata inutile all’aeroporto, prima del volo delle 13.15 per Roma, e invece Meriem ha insistito per venirci a prenderci all’alba, ci ha portate da lei, ci ha dato letti, coperte, cuscini morbidi e freschi di bucato, un bagno pulito e una colazione abbondante, dicendoci “questa è casa vostra” prima di farci riaccompagnare in aeroporto da Riad.
Nel mio esausto dormi-veglia, mi è sembrata un angelo. Una signora bionda, curata, bella, sorridente. Apparsa così, come un piccolo sogno quieto, di quelli che al mattino ti fanno svegliare con le membra rilassate.
Talvolta riemergono persone dal passato, quelle che proprio non ti aspettavi. E ti sorprendono, e in certi momenti diventano risolutive, importanti.
Meriem Belaala è una psicologa algerina, ma è soprattutto una femminista di quelle storiche, tenaci, dure e pure. Di quelle che non si sono mai smussate di fronte alle tentazioni della politica e del potere.
La avevo intervistata per telefono anni fa, era l’unica a potermi dare informazioni dettagliate su uno degli stupri di massa più efferati degli ultimi anni, del quale tornerò presto a scrivere. Per questo l’ho contattata, prima di questo viaggio ad Algeri: “Vorrei conoscerti di persona” le ho detto, e abbiamo fatto una lunghissima e intensa chiacchierata prima che io partissi per i campi profughi saharawi.
Adesso io e Simona abbiamo dormito un po', finalmente al caldo, nel suo centro che dà rifugio alle donne maltrattate. Eravamo sistemate nelle stanze per le emergenze, pronte per quando bussa una donna in pericolo di vita, appena stuprata, appena massacrata di botte dal marito, appena cacciata dal padre che l'ha vista sorridere a un ragazzo, e lei chiede riparo qui, e qui può restare finché non troverà un lavoro, un alloggio, un gancio per ricominciare a vivere. 
Beviamo caffè, mangiamo pain au chocolat ed ensemna, un pane sottile, morbido e oleoso. Mi sento a casa ma non sono a casa.
Uscendo nel sole, incontriamo ragazze giovanissime con figli neonati, che piegano tovaglie e lavano calzini, e i giochi per i bambini nel cortile. L’altura domina il porto, regala un pezzo di mare azzurrissimo e le case bianche di un’Algeri che questa volta mi è parsa bellissima. Ma forse è merito di Meriem.

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