VIDELA, TATY E LA GIUSTIZIA



La condanna a cinquant’anni di galera per Jorge Rafael Videla, l’“Hitler della pampa” argentina, fa pensare che la giustizia, ogni tanto, può essere anche di questo mondo. Magari tarda, scompare e riappare, balugina incerta e precaria, ma infine arriva, tutta intera.
Videla con i baffetti da Hitler, condannato il 5 luglio scorso, aveva guidato il colpo di Stato a Buenos Aires che, il 24 marzo del 1976, destituì il governo di Isabel Martinez Perón e inaugurò sette anni di sonno della ragione: diecimila prigionieri politici, un milione e mezzo di dissidenti esiliati, trentamila desaparecidos, fra cui centinaia di neonati. Videla ordinava di sottrarli alle madri detenute, per darli a coppie vicine al regime che non potevano avere figli. Ed è stato condannato anche per questo.
La testimonianza di Taty Almeida, una delle madri di Plaza de Mayo tra le più combattive, che ho incontrato qualche anno fa.
Taty ha appena pubblicato le poesie di suo figlio Alejandro, uno dei tanti giovani volti scomparsi nel nulla. Le aveva trovate tra le pagine di un’agenda, nell’affannosa ricerca di qualcosa che le restasse del giovane. Alejandro per sempre… amore è il titolo italiano, pubblicato dalla Ong Asal (www.asalong.org) insieme all’editrice argentina Baobab.



«È stato mio figlio a crescere me. A farmi prendere coscienza di ciò che accadeva nel mio Paese. A insegnarmi quanto sia importante lottare per la giustizia, anche quando la giustizia dei tribunali sembra non arrivare mai. Senza di lui, oggi io non sarei niente». Taty Almeida è nata nel 1931. È una donna comunicativa e sanguigna, incline al sorriso come alla commozione, che quando si presenta aggiunge sempre, a seguire il proprio nome: «Sono una madre di Plaza de Mayo». Il Comune di Torino le ha consegnato la cittadinanza onoraria per la sua testimonianza tenace, lunga più di trent’anni, sul periodo buio dell’Argentina: il golpe militare del 24 marzo 1976; i 30 mila desaparecidos, fra i quali c’è anche Alejandro, il secondo dei suoi tre figli; l’impegno con le madri di Plaza de Mayo, che il 30 aprile scorso hanno compiuto trentacinque anni e ogni giovedì continuano a sfilare, con i loro foulard bianchi, davanti alla Casa Rosada di Buenos Aires, la sede del governo. Un dramma collettivo di cui Taty, che negli anni Settanta faceva la maestra, si è ritrovata involontaria prefiguratrice: suo figlio è scomparso prima del golpe, il 17 giugno 1975, durante l’ambiguo governo di Isabelita Perón. Solo nel 2007 la giustizia argentina ha chiesto la sua estradizione dalla Spagna, dove la ex presidente si è rifugiata, per le sue responsabilità nella preparazione del regime militare. Ma Madrid ha respinto la richiesta. E per Taty Almeida, comunque andrà a finire, sarà una vittoria sul silenzio.



Cos’è accaduto quel giorno di giugno del 1975?
Mio figlio Alejandro aveva vent’anni, studiava Medicina e svolgeva il tirocinio in un dipartimento militare. Quel giorno mi disse che non sarebbe andato al lavoro perché aveva un esame all’università. Non è più tornato. Io sapevo che militava nell’Erp, un gruppo di sinistra, ma lui a casa non ne parlava. Era il periodo in cui nacque la Triplice A, l’Alleanza Anticomunista Argentina, un’organizzazione paramilitare che fece sparire duemila persone già prima del golpe. La presidente Isabela Perón aveva riconosciuto ampi poteri ai militari, spianando la strada al colpo di Stato.
Cos’ha pensato quando, nel 2007, Isabela Perón è stata arrestata a Madrid?
Ho ricordato la frase che la presidente ripeteva: “Non ne posso più di queste domande, mi soffocate”. Ho pensato che nessuna delle madri può perdonare, e lo dico senza odio: gli unici ad avere il diritto di accettare o rifiutare una riconciliazione sono i nostri figli. E non ci sono più.
Torniamo a suo figlio. 
Ho chiesto notizie di Alejandro a tutti i militari che conoscevo. La mia è una famiglia di militari, e questo fa ben capire come nessuno fosse immune dalla repressione. Mi rispondevano che a rapire Alejandro erano stati i suoi stessi compagni politici. Ci ho creduto. Ho aperto gli occhi solo nel 1980, quando mi sono unita alle madri di Plaza de Mayo. Avevo paura, mi aspettavo che mi cacciassero per via dei miei parenti militari. Invece l’unica domanda che le madri mi rivolsero fu: “Quale familiare ti manca?”. Soltanto questo contava.
Non ha mai saputo dove fu rinchiuso Alejandro?
No, nessuna notizia. Ma non perdo la speranza, perché ora si comincia a investigare sul Campo de Mayo a Buenos Aires, un centro di detenzione clandestino dove passarono quattromila desaparecidos: nessuno di loro è sopravvissuto per raccontare. Forse Alejandro è stato lì…



Sempre nel 2007, a Roma, sono stati condannati all’ergastolo cinque ex ufficiali argentini. Come ha accolto questa sentenza?
Ringrazio la magistratura italiana. Sebbene i criminali siano contumaci, l’importante è affermare la giustizia sul silenzio. Anche in Argentina le cose stanno cambiando: il presidente Kirchner ha chiesto perdono in nome della nazione. E soprattutto ha abolito le leggi vergognose dei suoi predecessori, che per trent’anni hanno impedito di indagare sui crimini della dittatura.
C’è stato un altro desaparecido, di recente, testimone in uno dei processi in corso contro i militari. 
È stato un atto intimidatorio per scoraggiare altri testimoni. Ma non ha funzionato: nessuno si è tirato indietro. E il prossimo 24 marzo saremo ancora in tanti a manifestare a Buenos Aires con le foto dei nostri cari scomparsi. La gente, anche i giovani che non hanno vissuto quel periodo, non dimentica. E attende che gli autori del genocidio vengano arrestati e rinchiusi nelle carceri comuni. Senza più privilegi né silenzi.


CRONOLOGIA DI UNA TRAGEDIA
1976. Il 24 marzo, l’ammiraglio Emilio Massera e i generali Jorge Videla e Ramon Agosti rovesciano il governo di Isabelita Peron. Reprimono i gruppi di sinistra, gli attivisti sindacali, il cattolicesimo di base. Lo slogan dell’epurazione è “Noi siamo Dio”. La reazione internazionale è debolissima. Il peso argentino si svaluta del 90%.
1983. Prime elezioni democratiche. La Commissione nazionale sulla scomparsa di persone (Conadep), nella sua relazione finale Nunca Más (Mai più), individua 340 campi di detenzione e raccoglie migliaia di testimonianze.
1987. Dopo le prime, miti condanne dei generali, la legge dell’”obbedienza dovuta” ne scagiona molti per aver seguito gli ordini e quella “del punto final” sancisce la prescrizione dei crimini. L’inflazione è al 5.000%.
1989. Il presidente Menem firma un’amnistia e nega l’esistenza di archivi che farebbero luce sui crimini. Nel ’90 Videla e Massera ricevono l’indulto. Nel ’97 comincia una violenta recessione economica.
2001. È il tracollo economico: l’Argentina ha un debito estero di 132 miliardi di dollari. Il 19 dicembre il presidente De la Rúa dichiara lo stato d’assedio e fugge in elicottero.
2003. In marzo, la Corte d’assise d’appello di Roma infligge l’ergastolo a sette militari argentini per la scomparsa di otto italo-argentini. I condannati sono contumaci nel loro paese.
2004. Il nuovo presidente Néstor Kirchner chiede perdono, a nome dello Stato, per le atrocità della dittatura militare. L’anno dopo è abolita l’amnistia per i colpevoli e viene trasformata in un luogo della memoria l’Esma, la Scuola della Marina dove migliaia di prigionieri vennero torturati. Videla è agli arresti domiciliari per il reato di sottrazione di minori. Massera è rimesso in libertà per infermità mentale.
2006. Il 18 settembre scompare Julio Lopez, testimone al processo contro l’ex capo della polizia della provincia di Buenos Aires Miguel Etchecolatz.
2007. Il 12 gennaio il giudice argentino Raul Acosta spicca un mandato internazionale di arresto per Isabelita Peron, da tempo residente a Madrid. Fu José Lopez Rega, il suo factotum, a creare la Triplice A, l’organizzazione che sparse il terrore prima del golpe. Il 14 marzo del 2007, la Corte d’assise di Roma condanna all’ergastolo cinque ex ufficiali della Marina argentina, anche loro contumaci. 
2008. Madrid nega l’estradizione per Isabelita Peron.

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